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Da “Dialoghi di Diritto Tributario” n. 9/2004

 

 

 

La trasparenza delle società di capitali e le presunzioni di distribuzione dell’utile

 

Di Alberto Buscema

Dottore Commercialista in Padova

 

Premessa

 

Nella nuova Ires il regime della trasparenza viene esteso anche ad alcune società a responsabilità limitata partecipate da un esiguo numero di soci.

Nei primi articoli apparsi nella stampa specializzata alcuni commentatori hanno ritenuto che questa nuova tecnica impositiva riconoscesse le tesi della Cassazione, elaborate negli anni recenti dai supremi giudici, che ritenevano “trasparenti” le società di capitali a ristretta base proprietaria.

Concludere in questo modo significa però confondere il regime della prova, essenziale nell’ambito procedimentale e processuale, con quello sostanziale, che riguarda le norme impositrici.

Per la verità su questo tema un po’ di confusione può essere stata indotta anche dalla lettura della motivazione delle sentenze che hanno affrontato il tema.

Per esempio nella motivazione della sentenza della Cassazione n. 4695 del 18.10.2001, depositata il 2.4.2002,  si legge “ La presunzione semplice in esame (che la ristretta base familiare di una società di capitali possa costituire il fatto noto che consente di risalire a quello della distribuzione ai soci del maggior utile non contabilizzato NDA), fondata sulle disposizioni generali degli artt. 2727 e 2729 del codice civile in relazione agli artt. 41 e seguenti del D.P.R. n. 597/1973, trae giustificazione da quella - ben più pregnante - dell’art. 5 del decreto del Presidente della Repubblica citato (successivamente, art. 5 del Tuir), non essendo dato negare che, in una organizzazione aziendale prevalentemente familiare, trovi applicazione il principio di trasparenza, tipico delle società di persone, in forza del quale i redditi prodotti dalla società sono imputati ai soci indipendentemente dall’effettiva percezione (Cass. n. 3254/2000 citata, in motivazione).

La lettura di questo passaggio non brilla per chiarezza e forse ha generato qualche malinteso.

Poiché richiamare l’articolo sulla trasparenza delle società di persone può indurre a ritenere che i giudici abbiano applicato questo regime ai casi in esame, appare opportuno sgombrare il campo da eventuali dubbi ripercorrendo la genesi delle norme impositive applicabili, secondo il vecchio testo unico, alle società di capitali e alle società di persone, nonché ai loro soci, individuando il diverso inquadramento.

 

Il regime impositivo delle società e dei soci

 

Le società di capitali, essendo dotate di autonoma capacità contributiva[1], sono assoggettate all’imposta sui redditi da esse posseduti.

La vecchia Irpeg era destinata ad incidere i loro redditi nel periodo d’imposta relativo alla loro produzione; successivamente, al termine della catena di eventuali passaggi intersocietari fiscalmente neutri, vi era la loro distribuzione ai soci persone fisiche sotto forma di dividendi.  

Le somme da questi percepite erano a loro volta assoggettate ad Irpef nell’esercizio di percezione, per effetto dell’articolo 42, comma 1.

Il meccanismo impositivo del vecchio Tuir, inoltre, permetteva che le imposte pagate dalla società di capitali venissero trasmesse ai soci persone fisiche sotto forma di credito d’imposta (articolo 14 vecchio Tuir).

Quest’ultimo istituto giuridico fu giustificato dalla considerazione che le società di capitali, per il vecchio Tuir, erano  meri strumenti di produzione del reddito, destinato comunque ad essere distribuito ai soci.

Le imposte pagate dalle società di capitali trovavano la loro definitività solo nella dichiarazione dei singoli soci, essendo considerate quali mera “anticipazione”.

I  redditi prodotti dalle società venivano, quindi, incisi inizialmente in capo alla medesima con l’irpeg e poi l’imposta veniva calcolata in capo al socio al momento della percezione del dividendo, attribuendogli il credito d’imposta che aveva la funzione di neutralizzare il carico impositivo già sopportato dalla società.

Le società di persone, diversamente, erano, e sono ancora oggi, tassate “per trasparenza”, meccanismo che consiste nell’imputare ai soci, che compongono la compagine al termine del periodo d’imposta, tutti i redditi della società in proporzione alle quote di partecipazione.

La ragione di questo istituto è stata dettata dal fatto che, in virtù dell’articolo 2262 del codice civile, il diritto alla percezione dell’utile si acquisisce con l’approvazione del rendiconto.

La diversità di trattamento impositivo dei soci stava, pertanto, nella individuazione del diverso momento in cui entravano in possesso del reddito: quindi, se partecipavano a società di persone venivano incisi per trasparenza, stante la vicinanza con il momento di approvazione del rendiconto; se partecipavano a società di capitali, di qualunque tipo, venivano tassati nel periodo d’imposta di percezione dell’utile.

Tra i nuovi istituti introdotti dall’Ires, come si diceva all’inizio, vi è anche la trasparenza delle società di capitali partecipate da soci persone fisiche, in analogia al meccanismo applicabile alle società di persone.

L’applicazione di questo istituto non è diretta; si distingue dalle altre “trasparenze” per alcune peculiari caratteristiche.

Innanzitutto sono imprescindibili alcuni requisiti: è necessario che la società abbia la forma giuridica di Srl, che il volume di ricavi  non superi le soglie previste per l’applicazione degli studi di settore, che la compagine sociale sia composta esclusivamente da persone fisiche in numero non superiore a 10 e che non possieda partecipazioni esenti.

E’ inoltre necessario esercitare l’opzione.

Sin qui la sommaria analisi delle norme che riguardano l’imposizione delle società e dei loro soci persone fisiche.

Passiamo ora ad illustrare le motivazioni che hanno permesso alla Cassazione di tassare i soci di società di capitali pur in assenza di prove certe della percezione del dividendo: quella che è stata più volte definita dai commentatori “trasparenza”.

 

Il pensiero della Corte di Cassazione

 

La Suprema Corte, decidendo nel periodo di vigenza delle vecchie norme, ha più volte stabilito che il maggior reddito accertato presso una società a ristretta base proprietaria debba essere direttamente imputato ai soci, indipendentemente dalla prova della effettiva percezione[2].

La conclusione è stata raggiunta sostenendo che il maggior reddito contestato, del quale non vi sia traccia nella contabilità societaria, si presume distribuito ai soci poiché normalmente essi sono stretti da vincoli di solidarietà e reciproco controllo. Secondo la cassazione, insomma, si puo’ presumere che i pochi soci di queste società di capitali, si siano spartiti d’amore e d’accordo il maggior reddito evaso.

Secondo questo ragionamento il legame tra i pochi soci è sufficiente a dimostrare la spartizione della ricchezza occultata al fisco; la conseguenza, tuttavia, non risulta essere  l’applicazione del regime della trasparenza.

Siamo, qui, di fronte ad un ragionamento presuntivo che intende provare la percezione, da parte dei soci, dei maggiori utili occultati al fisco, senza snaturare le regole stabilite dal legislatore, che richiedono il possesso del reddito, attraverso la percezione dell’utile, ai fini di inciderlo.

Non si tratta di tassare il reddito d’impresa per trasparenza, in assenza di norme che così prevedono, ma di tassarlo conformemente al vecchio articolo 42 del Tuir, provando, attraverso le presunzioni, che l’utile occultato è stato distribuito ai soci.

 

Alcuni schemi difensivi

 

Questa presunzione è diventata ormai pensiero dominante nella giurisprudenza della Cassazione.

Autorevole dottrina[3], nell’elencare gli schemi difensivi che il socio può adottare, indica i metodi idonei a contrastare questa prova (presuntiva).

L’autore ritiene, innanzitutto, che la presunzione di distribuzione  sia meno fondata per i soci di minoranza che non hanno ingerenza nell’amministrazione della società, ritenendo ragionevole che essi non abbiano partecipato alla spartizione della ricchezza occultata al fisco.

In questo caso la presunzione opposta dal socio a quella del fisco dovrebbe avere l’effetto di annullarne la portata.

I fatti noti indicati dal contribuente nell’ambito processuale, portano a conseguenze probabilistiche opposte a quelle fornite dal fisco, annullando il ragionamento presuntivo che tentava di dimostrare il fatto ignoto.  

Secondariamente, l’autore ritiene che anche i soci di maggioranza possano difendersi efficacemente dalle citate presunzioni qualora riescano ad eccepire, attraverso convincenti presunzioni, l’impiego dei maggiori redditi o in attività aziendali gestite extra-bilancio che hanno comportato la fuoriuscita della ricchezza (tangenti, salari a maestranze ecc.), oppure tramite il reinvestimento delle somme presso la società (acquisti di nuovi asset, rinfoltimento delle scorte ecc.).

In questo modo si dimostra che gli utili non sono mai usciti dalla società.

Tracciati così i confini processuali, con l’aiuto di queste importanti osservazioni, risulta ancor più evidente che l’argomento principe di questo tipo di giudizi riguarda le presunzioni, strumenti di prova, e non il meccanismo impositivo della trasparenza.

Ecco perché non si può ritenere che il regime della trasparenza introdotto dall’Ires costituisca il riconoscimento normativo delle considerazioni della Cassazione.

Non vi potrebbero essere punti di contatto tra questi due aspetti, nemmeno analizzando le norme dell’Ires.

Come più sopra si diceva, la nuova trasparenza riguarda un “ristretto” numero di soggetti, che: devono avere la forma giuridica di società a responsabilità limitata, produrre ricavi non superiori alle soglie previste per l’applicazione degli studi di settore e un numero inferiore a 10 soci.

Le presunzioni di distribuzione dell’utile, utilizzate dalla Cassazione a sostegno delle proprie decisioni, possono, invece, riguardare tutte le società di capitali a ristretta base proprietaria.

La trasparenza appena codificata è applicabile solo per volontà dei soci ed è stata congegnata non per riconoscere che la complicità comporti la distribuzione dell’utile (perdipiù solo quello occultato) ma al fine di permettere la trasmissione delle perdite, in un regime in cui si è reso necessario correggere il divieto di svalutare le partecipazioni.

E’ un istituto ispirato ad esigenze di tecnica fiscale, ma che non cambia le “normali” regole.

Infatti chi non opta per questo regime resta assoggettato alle regole che incidono inizialmente il reddito societario e, secondariamente, all’atto della distribuzione, quello dei percettori.

 

Una diversa presunzione

 

Per concludere vorrei riportare una mia riflessione che riguarda la presunzione di complicità che hanno elaborato i supremi giudici.

Abbiamo visto che le motivazioni addotte dalla Cassazione tendono a ritenere tassabile il socio delle società a ristretta base proprietaria ritenendo che tra loro vi sia complicità e reciproco controllo.

Credo che una presunzione così costruita costringa il socio ad una difficile difesa volta a dimostrare la sua estraneità alla distribuzione di ricchezza.

Le norme del vecchio diritto societario potrebbero costituire un valido appiglio per una eventuale difesa.

Il vecchio articolo 2489, che riguarda le società a responsabilità limitata (in vigore all'epoca delle sentenze della cassazione che abbiamo considerato), prevedeva che il socio avesse diritto di avere dagli amministratori notizia dello svolgimento degli affari sociali e di consultare i libri sociali.

Un diritto del socio così limitato, dovuto alla scissione tra proprietà e gestione, non consente al socio di verificare approfonditamente come si svolgono le singole operazioni; è più un diritto di controllo della documentazione che altro.

L'amministratore che effettua operazioni “in nero” lascia tracce documentali solo se è sprovveduto.

Quindi il socio non riesce a vederle.

Ecco perchè non mi pare altamente probabile l’eventualità in cui, per usare le parole della suprema corte: “alla semplice composizione minima della base sociale sia evincibile  la distribuzione ai soci dell'utile occultato”.

Un simile automatismo, se preso alla lettera, renderebbe difficilissimo fornire adeguata controprova.

Anche in ambito familiare, la promessa di fedeltà, l’attesa di un comportamento onesto, non sempre si traducono in fatti conformi.

Se il famigliare tradisce, come fa il socio a dimostrare che l'amministratore si è rubato i soldi?

Non riesce a provarlo; può solo suggerire questa ipotesi al giudice.

E allora: il fisco presume la distribuzione perchè i soci sono pochi; il socio, che non li ha intascati, presume che se li sia rubati l'amministratore.

Ecco perché ritengo utilizzabile, senza modificare la sostanza delle cose, ma ripartendo diversamente l’onere della prova, un diverso schema argomentativo.

La presunzione grave, precisa e concordante è quella che l'amministratore-socio, poiché dotato di poteri gestori che gli consentono di concludere i contratti e incassare le relative somme, si sia intascato le somme.

Di conseguenza egli appare il primo responsabile della maggiore imposta accertata. Sarà poi lui, al fine di togliersi questo carico impositivo, a dimostrare dove sono andate a finire queste somme. Il socio,invece, è il soggetto più lontano dal momento di produzione della ricchezza, che è ragionevole escutere solo dopo che si siano percorse altre vie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1] Secondo l’articolo 53 della Costituzione “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” ; si è ritenuto di attribuire questa capacità anche alle persone giuridiche poiché, essendo dotate di autonomia patrimoniale, sono in grado di essere titolari di rapporti sostanziali propri. Ecco, sinteticamente,  il motivo dell’istituzione dell’imposta sulle persone giuridiche. Parallelamente, poiché si sarebbe attuata una discriminazione (violazione dell’articolo 3 della Costituzione), tra chi esercita una impresa individuale o tramite una società di persone e chi per mezzo di una società di capitali, si è provveduto ad istituire il credito d’imposta.

[2] Le sentenze che riguardano questo tema sono numerose. Le più recenti  sono la n. 2606 del 8.03.2000; n. 3254 del 20.03.2000; n. 7218 del 28.05.2001; n. 7173 del 16.5.2002;  n. 16885 del 25.03.2003.

[3] Si tratta di R. Lupi “manuale giuridico professionale di diritto tributario”, IPSOA pag. 588 e ss.