Da “Il Fisco” n. 47/2004
Opzione per la trasparenza ex art.
116 del tuir: siamo sicuri di aver valutato bene anche i rischi?
Di Alberto Buscema
Dottore Commercialista in Padova
Premessa
Nel nuovo
testo unico delle imposte sui redditi, il regime della trasparenza viene
esteso, su basi opzionali, anche ad alcune società a responsabilità
limitata partecipate da un esiguo numero di soci.
L’istituto è simile a quello previsto per le società
di persone, i cui meccanismi di funzionamento sono ormai divenuti
famigliari, ed è stato analogamente codificato per volontà del
legislatore delegante che, all’articolo 4, comma 1, lettera h) della
legge 7 aprile 2003, n. 80 ha disposto “l’equiparazione ai fini delle imposte dirette della società a
responsabilità limitata che esercita l’opzione ad una società di persone”.
Tuttavia l’”analogia” alle società di persone non è
totale e la lettura degli articoli 115 e 116 lo evidenzia, come vedremo
in seguito.
La ragione
che ha determinato l’introduzione di questa particolare trasparenza è
stata dettata dall’esigenza di consentire la trasmissione delle perdite,
in un regime in cui si è reso necessario correggere il divieto di
svalutare le partecipazioni (divieto derogato solo per quelle di tipo
“speculativo”).
In questo periodo, il primo nel quale si affronta
l’argomento, si valutano tutte le opportunità offerte dalle nuove norme
fiscali e sembra che l’attenzione principale si concentri solo sulle
opportunità di pianificare efficientemente i carichi impositivi.
I contributi di molti autori si orientano in questo
senso, nell’intento di agevolare l’assimilazione delle opportunità
offerte dalla norma.
Tuttavia mi sembra necessario attirare l’attenzione
degli operatori sulle conseguenze che l’opzione può comportare, poiché,
se determinata solo dalla mera convenienza impositiva, può condurre a conseguenze non volute.
Certo, la leva fiscale ha il suo fascino, ma non
deve essere l’unica variabile da considerare.
Vediamo perché.
Il
contenuto delle disposizioni sulla trasparenza e le conseguenze in capo
ai soci
L’opzione per la trasparenza produce l’effetto di
spostare il carico fiscale dalla società al socio, come se la prima
entità fosse – per l’appunto – “trasparente”.
L’obbligazione tributaria principale, quindi, non
riguarderà più la società di capitali ma diventerà obbligazione personale
del socio, analogamente, qui, a quanto accade per le società di persone.
Ciò
significa che, se in sede di accertamento vengono contestati maggiori
redditi, occultati dalla società, non si potrà più usufruire dello schermo
protettivo fornito dall’accoppiata personalità giuridica-Ires, poiché
demolito dall’opzione per la trasparenza; non varranno più, in altre
parole, le considerazioni sull’autonomia
soggettiva e patrimoniale, ma ci si dovrà preoccupare di far
fronte alle pretese del fisco in proprio.
Le
conseguenze sono immaginabili: tutti i mezzi di tutela del credito
erariale potranno essere esperiti direttamente in capo al socio, poiché
direttamente responsabile del carico impositivo.
La società
non servirà più quale schermo contro le pretese avanzate dall’erario; la
S.r.l. sarà solo vincolata in proprio dall’obbligazione tributaria
nascente dall’Irap.
Questo
percorso impositivo è esattamente quello che si vuole ottenere con
l’opzione, cioè l’effetto di evitare l’applicazione dell’Ires, imposta
dovuta sul reddito delle società, scambiandola direttamente con l’Irpef
(futura Ire) ed evitando la doppia tassazione (che si genererebbe
all’atto della distribuzione dei dividendi).
Le
conseguenze esposte sono il naturale effetto della trasparenza ex art.
116; tuttavia vanno cautamente ponderate.
La
solidarietà della partecipata si riverbera sui soci
Vi è un
altro aspetto da considerare attentamente; è previsto dal comma 8,
dell’articolo 115 del testo unico, applicabile anche alle persone fisiche
che partecipano alla trasparenza di cui all’articolo 116 per effetto
delle condizioni richiamate nel suo primo comma.
In quella
norma si prevede la responsabilità solidale della società con ciascun
socio per le conseguenze patrimoniali derivanti dall’inadempimento
degli obblighi tributari di questi
ultimi.
Senza qui
affrontare la conformità di questa parte della norma delegata alla
delegante, questa responsabilità
riguarda le maggiori imposte, le sanzioni e gli interessi relativi
al reddito imputato per trasparenza, per i quali la società resterà
solidalmente obbligata con i soci (si veda anche l’art. 13, comma 1, del
D.M. 23 aprile 2004).
Non così
per gli omessi o carenti versamenti dell’imposta da parte dei soci o nel
caso di omessa o parziale dichiarazione da parte del soggetto
partecipante del reddito imputato – quindi già da esso dichiarato - dalla
società partecipata (ex artt. 12 e 13 del D.M. 23 aprile 2004).
La lettura
delle citate disposizioni deve indurre ad una ulteriore riflessione.
Poniamo il
caso di una società che abbia esercitato l’opzione per la trasparenza,
venga accertata dal fisco e ne consegua la contestazione di un reddito
evaso; questo, per effetto dell’articolo 115, comma 10, del tuir,
applicabile anche al regime di cui all’art. 116, - le cui disposizioni
applicative sono previste dall’articolo 13 del D.M. 23 aprile 2004 –
viene accertato anche in capo ai soci.
Questi,
perciò, dovranno farsi carico degli importi contestati.
Tuttavia,
ai sensi delle norme in esame, l’eventuale inadempimento di uno di loro
alle pretese del fisco si riverbererà in capo alla società e, quindi,
alla fine, in capo agli altri soci.
L’obbligazione
tributaria non adempiuta da parte del socio costringerà il fisco ad agire
nei confronti della società, depauperandone il patrimonio a detrimento di
tutti i partecipanti.
E’ la
caratteristica della solidarietà, istituto di matrice civilistica che ha
lo scopo di rafforzare la garanzia patrimoniale e, per questa via,
aumentare le probabilità di esazione del credito.
Quindi,
prima di esercitare l’opzione, bisognerà farsi carico di valutare fino in
fondo non solo le questioni che riguardano il quantum dell’obbligazione tributaria ma anche le conseguenze
del suo inadempimento da parte dei soci.
Nell’affrontare
la questione, non ci si lasci ingannare dalla tesi che, comunque,
l’opzione è indifferente, sul piano accertativo, perché il reddito di
società a ristretta base proprietaria può essere “imputato” ai soci.
Questa
affermazione non è corretta; il tema è stato oggetto di numerose sentenze
tributarie delle quali risulta necessario specificare ed analizzarne i
confini, poiché, così posta la questione, risulta fuorviante.
E’
opportuno, quindi, fare alcune considerazioni e precisazioni.
I nuovi meccanismi
impositivi
Innanzitutto
vi è una radicale differenza tra l’Ires e l’Irpeg.
La
vecchia imposta sulle persone giuridiche costituiva una specie di acconto
sulle imposte personali del socio, al quale prima o poi affluiva la
ricchezza prodotta dalla società.
Quando il
socio, persona fisica, riceveva il dividendo, si procedeva al calcolo delle sue
imposte personali, attribuendogli, tramite il credito d’imposta, l’Irpeg
pagata dalla società.
La nuova
Ires è stata pensata quale imposta definitiva sul reddito prodotto dalle
società.
Una
ulteriore tassazione, di entità variabile a seconda che il socio sia
qualificato o meno, inciderà il dividendo percepito dal socio persona
fisica.
Quindi,
il ragionamento che vorrebbe accomunare la trasparenza impositiva dell’art.
116 del tuir alla “trasparenza” risultante dal procedimento accertativo
non risulta corretto anche nell’aspetto meramente quantificativo della
pretesa erariale.
Esaminiamo,
ora, il contenuto delle sentenze della Corte di Cassazione, al fine di
chiarire anche l’altro aspetto.
Il pensiero della Corte di
Cassazione
Per
comprendere quando la presunzione sopracitata potrebbe essere applicata,
vediamo quali sono i presupposti stabiliti dalla Cassazione nell’intento
di considerare provata la percezione, da parte dei soci, del maggior
reddito occultato al fisco.
La Corte di
Cassazione, nel periodo di vigenza delle vecchie norme, ha più volte
stabilito che il maggior reddito accertato presso una società a ristretta
base proprietaria dovesse essere direttamente imputato ai soci,
indipendentemente dalla prova della effettiva percezione.
Questa
conclusione è stata raggiunta sostenendo che il maggior reddito
contestato, del quale non vi sia traccia nella contabilità societaria, si
presumeva distribuito ai soci,
poiché normalmente essi sono stretti da vincoli di solidarietà e
reciproco controllo.
Questo
ragionamento ha avuto la forza di persuadere i giudici che il legame tra
i pochi soci è sufficiente a dimostrare la spartizione della ricchezza
occultata al fisco.
Nel
decidere la questione, essi hanno avallato questa prova per presunzioni -
che sono “le conseguenze che la
legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad uno ignorato”
– per dimostrare, con un alto grado di probabilità, che i soci si siano spartiti
la ricchezza occultata al fisco.
Provata la
distribuzione degli utili dalla società ne consegue la percezione degli stessi da
parte dei soci; non si ha alcuna conseguente “trasparenza”, come
sembrerebbe sostenere qualche autore, ma viene solo “provata” la
percezione del dividendo da parte del socio.
Questa
presunzione, inoltre, non deve essere interpretata quale possibile forma
di automatismo accertativo applicabile ogniqualvolta la società sia
partecipata da un esiguo numero di soci, ma può essere la naturale
conseguenza di un provato legame tra i soci.
Certo, gli
uffici finanziari potranno tentare di sostenerne la diretta applicazione.
Ma le conseguenze ritraibili dalla presunzione non sono automatiche,
valide per tutte le occasioni; bisogna operare dei distinguo.
La
(contro)presunzione fornita dal socio dovrebbe avere l’effetto di
annullare la portata di quella prospettata dal fisco, poiché i fatti noti,
dal primo indicati nell’ambito processuale, portano a conseguenze
(probabilistiche) opposte a quelle fornite dal fisco, depotenziandone la
persuasività.
Inoltre,
l’autore ritiene che anche i soci di maggioranza abbiano a disposizione
strumenti che consentano una agevole difesa dalle citate presunzioni:
essi sono attivabili qualora si riesca ad eccepire, attraverso
convincenti (contro)presunzioni, l’impiego dei maggiori redditi o in
attività aziendali gestite extra-bilancio che hanno comportato la fuoriuscita
della ricchezza (tangenti, salari a maestranze ecc.), oppure tramite il
reinvestimento delle somme presso la società (acquisti di nuovi asset,
rinfoltimento delle scorte ecc.).
In questo
modo si dimostra che gli utili non sono mai usciti dalla società e,
pertanto, non possono essere affluiti nelle tasche del socio.
Conclusioni
L’analisi
sin qui condotta dimostra la presenza di importanti fattori di rischio,
derivanti dall’esercizio dell’opzione, che devono essere attentamente
ponderati, per non incorrere in spiacevoli e indesiderate conseguenze.
La attenta
lettura della norma porta già con sé le considerazioni esposte, non
essendo qui stato aggiunto nulla alla sua piana lettura.
Tuttavia
nei dibattiti che si succedono in questi giorni non vengono evidenziati
questi passaggi, con buona pace delle conseguenze a carico dei distratti.
Abbiamo
anche sottolineato che i soci di società trasparenti per opzione non
corrono gli stessi rischi, come qualcuno ha inteso dalla lettura delle
sentenze della Cassazione, di quelli partecipanti a società soggette
all’Ires.
Non vi è,
infatti, alcun automatismo che consenta di “imputare” direttamente ai
soci i redditi occultati dalla società, essendo necessaria un’attenta
valutazione caso per caso.
Ecco perché
la scelta della trasparenza abbisogna di meditate considerazioni sulle
sue conseguenze.
|