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Da “Dialoghi di Diritto Tributario” n. 1/2005

 

Sull’illegittimità dell’utilizzazione dei poteri istruttori in funzione sostitutiva delle carenze probatorie delle parti.

Di Alberto Buscema

Dottore Commercialista in Padova

 

 

I rapporti tra poteri istruttori delle commissioni e allegazioni di parte possono presentarsi, a seconda dei casi concreti, sotto profili sempre diversi, su alcuni dei quali si sono soffermati Vignoli, Marcheselli e RL, su Dialoghi 3-2004, e Vantaggio e Lupi sul precedente n.11-2004. Vale la pena di riprendere il dialogo, rilevando prima di tutto che le massime enunciate nelle sentenze vanno contestualizzate, riferendole ai casi  specifici, a come i giudici si erano comportati nei gradi precedenti all’esame di cassazione. Giustamente, infatti, la Suprema Corte è restia ad intromettersi eccessivamente nei criteri utilizzati  dai giudici a quibus  sull’utilizzo dei poteri  istruttori.

Nel caso esaminato da Marcheselli e Vignoli (Cassazione n. 10374 del 1 luglio 2003 in Dialoghi n.3-2004) la commissione tributaria, affermando un proprio potere estimativo anche sostitutivo, aveva acquisito autonomamente elementi per decidere una controversia in tema di rettifica dei valori di quote immobiliari ai fini delle imposte di registro; mentre, in primo grado, era stato accolto il ricorso dei contribuenti nella convinzione che il valore dichiarato nell’atto di compravendita fosse superiore a quello determinato ai sensi dell’articolo 52 del D.P.R. n. 131/86, nota ai più quale valutazione automatica.

I giudici d’appello decidevano, invece, di utilizzare i poteri dell’articolo 7, comma 2, del D.Lgs. 546/92, ordinando all’Ute 1) di accertare quali beni fossero dotati di rendita e consentissero la valutazione automatica e 2) di determinare il valore venale degli altri.

Sulla base della relazione dell’Ute, la commissione decideva il contenzioso riformando la sentenza di primo grado e determinando, in proprio, i valori da rettificare.

La cassazione avallo’ l’attivismo dei giudici di merito considerando legittimo l’esercizio del loro potere estimativo, anche sostitutivo, in base al quale erano stati acquisiti, altri elementi di decisione, seppure non contenuti negli accertamenti dell’Ufficio e non provati.

Questa conclusione, se sistematizzata, non appariva in linea con il profilo dell’istituto che disciplina i poteri delle commissioni tributarie ed era stata oggetto di numerose critiche apparse anche in altre riviste.

Ciò che, in particolare, non appariva appagante, era la conclusione secondo la quale le commissioni tributarie possano sopperire alle manchevolezze istruttorie dell’amministrazione finanziaria tramite l’esercizio dei propri poteri.

Questa sentenza contrastava infatti con la nota posizione dottrinale, sostanzialmente omogenea, secondo la quale  l’onere della prova, necessario a dimostrare il quantum della pretesa tributaria, doveva essere ad esclusivo carico dell’Amministrazione Finanziaria.

Appare evidente che un intervento estimativo operato dal giudice comporta sia un indebolimento delle garanzie difensive del contribuente sia una estensione del potere amministrativo, poiché un accertamento mal formulato avrebbe potuto essere corretto dagli organi giurisdizionali.

Ed è, invero, la stessa funzione del giudice, voluto dal legislatore quale arbitro imparziale della controversia, che dovrebbe suggerire la bontà di queste conclusioni; diversamente egli si troverebbe a vestire, di volta in volta, i panni del ricorrente o dell’Ufficio per andare a provare – e rappresentare - (a sé stesso!) una diversa, e nuova, verità.

Neppure l’interpretazione della disposizione che stabilisce i poteri dei giudici consente un loro intervento integrativo; questa conclusione appare chiara ripercorrendo brevissimamente l’evoluzione normativa dell’istituto.

Nel vigore del vecchio rito processuale – con le modifiche apportate dal D.P.R. 3 novembre 1981, n. 739 - l’istruttoria del giudice tributario era necessaria per “conoscere i fatti rilevanti per la decisione”.

Successivamente, gli accesi dibattiti dottrinali hanno spinto il legislatore ad inserire, nella nuova formulazione dell’articolo 7 D.Lgs. 546/92, la precisazione che i poteri della commissione tributaria sono esercitati ai fini istruttori e “nei limiti dedotti dalle parti”.

Ecco il punto: nell’ambito delimitato dall’avviso di accertamento e dal ricorso del contribuente si svolgono i poteri istruttori del giudice, senza alcuno sconfinamento.

In questo senso si esprime anche la Relazione Ministeriale di accompagnamento alla norma appena citata, specificando che si è attenuata “la natura tipicamente inquisitoria del processo tributario, in relazione al maggior spazio lasciato all’impulso di parte e soprattutto al venir meno della funzione assistenziale prima riconosciuta ai giudici tributari e ora soppiantata dall’obbligo delle parti private di munirsi dell’assistenza tecnica”.

Viene quindi ripudiato qualsiasi intervento integrativo da parte del giudice.

Analoghe conclusioni si trovano nella Circolare Ministeriale n. 98/E del 1996 che, sempre commentando l’articolo 7 del D.Lgs 546/92, afferma: “Si precisa che rispetto alla previgente disciplina normativa, che non limitava l’esercizio dei poteri istruttori delle Commissioni tributarie, la nuova disposizione riduce l’esercizio stesso ai soli casi di indagine dei fatti dedotti dalle parti”.

Insomma i giudici hanno la funzione di verificare le allegazioni delle parti al fine di permetterne una compiuta valutazione; il legislatore ha voluto proprio chiarire che le Commissioni Tributarie non possono ricostruire diversamente la fattispecie imponibile ma devono indagare nel solo ambito dei fatti dedotti, e delimitati, dalle parti.

Si possono avvalorare queste conclusioni anche per diversa via, analizzando cioè altre disposizioni del D.Lgs. n. 546/1992, e specialmente il rinvio al codice di procedura civile, previsto nell’articolo 1, comma 2 [1].

L’articolo 115, primo comma, del codice di procedura civile è così formulato: “Salvi i casi previsti dalla legge il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero”.

Poiché questa disposizione del c.p.c. non è incompatibile con quelle previste dal processo tributario, appare in tutta la sua evidenza che il giudice non possa  assumere proprie prove sulle quali fondare la decisione, ma debba fare esclusivo riferimento a quelle proposte dalle parti.

La Cassazione, con la sentenza in rassegna, è tornata sul tema, sostenendo proprio che l’articolo 7 “è stato interpretato dalla giurisprudenza come norma che … non può essere invocata quale rimedio per le lacune probatorie delle parti”.

La sentenza in rassegna chiarisce puntualmente la portata dell’articolo 7: “i poteri di ufficio vanno usati prudentemente e discrezionalmente; essi non hanno la funzione di rimediare a deficienze probatorie delle parti; le parti non possono dolersi circa l’uso (discrezionale) che le Commissioni fanno di tali poteri; ma quando la situazione probatoria  è tale che non possa pronunciarsi una sentenza ragionevolmente motivata senza acquisire di ufficio alcune prove, è scorretto il rifiuto da parte del giudice tributario di utilizzare i poteri di acquisizione della prova ai sensi del ridetto art. 7”.

Ecco che l’unica spiegazione possibile alla sentenza citata nelle prime righe di questo scritto non sembra un cambio di direzione nel pensiero dei giudici, ma appare piuttosto plausibile quanto sostenuto nella precedente annotazione di tale sentenza, secondo cui “si tratta solo del comprensibile atteggiamento di un giudice che, di fronte a iniziative istruttorie utilmente intraprese dalle commissioni tributarie, non se l’è sentita di vanificarle”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1] Tale norma come noto dispone che “I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile.”