Da “Il Fisco” n. 35/2005
Accertamento: non sempre le movimentazioni
bancarie segnalano un’evasione
Di Alberto Buscema
Dottore Commercialista in Padova
E’ noto che il nostro ordinamento tributario
comprende molteplici tributi che vengono costantemente disciplinati da
leggi che ne modificano o integrano la struttura.
L’evoluzione peculiare del diritto tributario può
essere paragonata a quella di un
essere vivente, le cui cellule nascono e muoiono continuamente proprio
come le disposizioni fiscali.
Questa dinamicità, tuttavia, genera spesso norme di
difficile comprensione, sotto il profilo della “lettera” e dello scopo, e richiedono allo studioso grande
impegno interpretativo, sensibilità e conoscenza approfondita del
sistema.
Non a caso questa branca del diritto è considerata
una delle più ostiche e la incessante produzione di scritti dottrinali e
pronunce giurisprudenziali lo testimonia.
La frenesia legislativa di cui parliamo non solo
costringe l’operatore di diritto tributario ad una certosina
ricostruzione dell’evoluzione normativa ma richiede una attenta
meditazione sul significato dei nuovi enunciati e il necessario confronto
con i principi di ordine superiore, perlopiù di rango costituzionale, per
verificare che tutto si armonizzi.
Proprio la Corte Costituzionale, espungendo
dall’ordinamento numerose leggi fiscali, ha dimostrato che il legislatore
non è infallibile e può anch’esso incappare in errori: una produzione
legislativa così esasperata non concede adeguati tempi di meditazione e
di confronto nemmeno all’estensore.
Ecco disegnato l’intricato e magmatico contesto in
cui l’attività interpretativa del tributarista deve muoversi: egli si
deve confrontare con i molteplici presupposti delle diverse imposte (che
prendono in considerazione diversi aspetti della capacità contributiva),
deve amalgamare disposizioni successive che integrano o modificano le
precedenti, comprendere le motivazioni – la cosiddetta “ratio” - che hanno spinto il
legislatore alla modifica, vagliarne la costituzionalità ecc.
La particolarità del nostro sistema legislativo fa
si che l’interprete sia, quindi, costretto ad approfondite riflessioni
prima di arrivare a cogliere il corretto, o perlomeno sostenibile,
significato della norma.
Insomma in questo contesto, più che in altri, non
sempre gli sforzi del legislatore sono rappresentati da disposizioni ben
riuscite, che si inseriscono correttamente nell’ordinamento tributario
senza indurre particolari problemi interpretativi.
Così, in occasione dell’emanazione di nuove
disposizioni, l’interprete percorre tutto l’iter sopra evidenziato e
cerca di riempire di significato il testo con il quale si confronta.
Tuttavia non sempre giunge ad un risultato
ragionevole, comprovato dal fatto che la norma sembra “filare” rispetto
ai principi dell’ordinamento tributario; vi sono momenti in cui qualcosa
“non quadra” e si avverte una sensazione di disagio istintivo che va
affrontata approfondendone le cause.
Una simile sensazione, si può avvertire, a mio
avviso, leggendo l’articolo 32,
comma 1, punto 2, del D.P.R. n. 600/1972 che, inserito nell’ambito dei
poteri attribuiti agli uffici delle imposte, introduce delle presunzioni
di evasione a carico di imprenditori e professionisti titolari di conti
correnti bancari e postali nonché
di libretti al portatore ed altri strumenti finanziari.
La presunzione ha lo scopo di convertire in reddito
i movimenti di prelievo di denaro che non sono stati annotati nelle
scritture contabili.
La
stesura iniziale della norma, risalente agli inizi degli anni novanta,
formulava queste presunzioni ad esclusivo sfavore degli imprenditori,
escludendo dalla loro portata i
professionisti.
Qualche
commentatore aveva ritenuto che la sentenza della Suprema Corte di
Cassazione, n. 11094 del 3 giugno 1999, affermasse l’operatività della
presunzione anche per i professionisti.
Tuttavia
l’attenta lettura della sentenza
permette di comprendere che questa era la richiesta avanzata dalla
ricorrente, al fine di escludere dalla tassazione i prelievi effettuati
dal professionista, ma la Corte ha deciso di escludere l’esame del punto
poiché nel caso di specie l’accertamento era basato solo sulla
rilevazione di versamenti, contestabili a qualsiasi contribuente quali
espressione di maggiore reddito, e non sui prelievi, per i quali la legge
faceva riferimento ai soli “ricavi”
(riferibili, come è noto, solo agli imprenditori).
La
recente legge n. 311/2004, articolo 1, comma 402, ha ampliato i poteri
degli uffici disponendo che, dal 1° gennaio 2005, “sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle
stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il
beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili, i
prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od
operazioni”.
Prima di passare all’analisi critica della norma, si
noti che essa, ad ennesima riprova di quanto stiamo sostenendo sulle
difficoltà interpretative, porta con sé tutte le incertezze derivanti dal
suo carattere procedimentale, connotato dalla caratteristica che ne
permette l’applicazione agli attuali accertamenti relativi a periodi
d’imposta antecedenti alla sua entrata in vigore.
Molti commentatori hanno sottolineato che le
modifiche nei poteri degli uffici delle finanze consentono “da adesso” di
verificare movimenti finanziari “anomali” del passato.
Si potrebbe discutere sulla legittimità di odierni
accertamenti basati su movimenti bancari effettuati nel passato.
Pensare al solo carattere procedimentale della norma
non aiuta; anche qui, per dirimere la questione, si rende necessario il
confronto con i principi costituzionali, che, tra gli altri, forniscono
tutele al contribuente esposto a richieste non prevedibili in passato.
Bisogna, a tal fine, considerare che il
professionista, di fronte alle contestazioni dell’ufficio finanziario,
può non essere in grado di spiegare la ragione di movimenti avvenuti anni
prima che la legge fosse approvata, menomando così il diritto di difesa.
Ma non è questo l’oggetto del presente lavoro; in
queste righe interessa valutare, brevemente, un diverso aspetto della
norma, quello relativo alla verifica delle presunzioni che intendono
trasformare in reddito i movimenti di prelievo finanziario.
In particolare, come visto, vengono posti a base
delle rettifiche e degli accertamenti i prelevamenti annotati nei conti
bancari ma non risultanti dalle scritture contabili.
Ancora una volta entrano in gioco le variabili
interpretative che avevamo citato all’inizio.
Infatti la presunzione “de qua”, qualora pedissequamente applicata in sede di
verifica, può condurre a risultanti insoddisfacenti dal punto di vista
della logica e quindi essere tacciata di irragionevolezza.
Sappiamo che il principio di ragionevolezza è uno
dei parametri frequentemente utilizzati dal giudice delle leggi per
verificarne la compatibilità con i principi di capacità contributiva e
uguaglianza.
Invero, una presunzione così formulata, appare in
contrasto con i criteri dettati dalla ragionevolezza e dalla “comune
esperienza”, entrambi richiamati dalla giurisprudenza della Corte
Costituzionale.
Insomma, queste presunzioni non sembrano cogliere
ciò che la realtà dei fatti indica, e cioè che un prelevamento possa
davvero essere stato utilizzato dal titolare per necessità personali, ma
considera in maniera distorta che esso sia stato un ricavo.
Sotto altro profilo la norma, per cercare di
recuperare senso, potrebbe presumere che i prelevamenti siano ricavi se i
versamenti corrispondenti non ci sono; la comune esperienza dimostra che
possono esserci costi neri che hanno generato ricavi neri, di cui i primi
pagati con le risorse finanziarie depositate in banca.
Però anche in questo modo si giungerebbe a
conclusioni inappaganti perché si genererebbe una tassazione, come
ricavo, di un costo... senza ammettere in deduzione i relativi costi (!!)
con un effetto distorsivo in relazione alle diverse percentuali di
ricarico applicate: chi ha un elevato valore aggiunto, e compra in nero
per 100, si vede accertare 100, anche se i suoi ricavi sono tre volte
tanto; chi ha un valore aggiunto modesto, si vede tassare su 100 anche se
i suoi ricavi sono 110.
Ecco l’altra contraddizione rappresentata dalla “natura intrinseca di costo, che
caratterizza il prelevamento bancario, e la disposizione legislativa che
lo presume essere il suo opposto, cioè un ricavo”.
Per condurre a razionalità queste presunzioni
bisogna far leva sulla loro verosimiglianza, sulla loro attitudine a
dimostrare che i prelievi fossero frequenti o di importo eccessivo
rispetto alle possibilità reddituali denunciate dal contribuente.
Ma in questo quadro la presunzione in esame non
aggiunge nulla di più a ciò che già le normali presunzioni erano in grado
di dimostrare; ne risulta che le prime hanno solo arricchito il panorama
normativo di uno strumento distorto, che non può essere utilizzato
semplicemente “così com’è” ma richiede una attenta valutazione da parte
dei verificatori. Perché non accada che sia convertito in reddito qualsiasi prelievo, come intenderebbe,
con grande approssimazione, fare questa norma.
Ecco che il discorso dal quale siamo partiti, sul
necessario approfondimento di qualsiasi norma da parte dell’interprete
assume un concreto significato: non bisogna dare per scontato ciò che il
legislatore scrive ma è necessario verificarne tutti i contorni – la
lettera, lo scopo e la conformità ai principi costituzionali – per
giungere a comprenderne compiutamente la portata.
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