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Da “Dialoghi di Diritto Tributario” n. 7-8/2005

 

 

L'ostensione di operazioni derivanti da soggetti ubicati in paradisi fiscali: aspetti procedimentali e possibilità di integrare segnalazioni inizialmente omesse

 

 

Di Alberto Buscema

Dottore Commercialista in Padova

 

Nel testo unico delle imposte sui redditi vi è una disposizione che si propone di contrastare gli acquisti effettuati da fornitori residenti nei cosiddetti “paradisi fiscali”.

Lo spirito della disposizione è di contrastare prassi in cui si intrecciano elusione ed evasione.

Spesso, infatti, dietro all’impresa straniera, collocata in territori a regime fiscale privilegiato, si nasconde lo stesso soggetto economico che detiene il comando dell’impresa italiana. Può anche accadere che fornitori formalmente indipendenti si prestino a prassi “compiacenti”. Retrocedendo in tutto o in parte il corrispettivo conseguito.

Le cautele normative rispetto a tale eventualità sono tuttavia troppo indiscriminate, dando luogo a distorsioni già esaminate su Dialoghi.

Le operazioni intercorse con imprese situate in paradisi fiscali possono, tuttavia, assumere varia natura - essere fittizie oppure realmente avvenute - non essendo pensabile che i negozi giuridici conclusi con tali enti siano solo fasulli. Basti pensare, come ipotesi “innocua”, al caso in cui un’impresa italiana possiede uno stabilimento o un cantiere ubicato in un “paradiso fiscale”, e si trova necessariamente ad effettuare acquisti correnti da fornitori di quel paese.

Il legislatore italiano, non potendo verificare, se non con enormi sforzi economici e organizzativi,  l’effettività di tali scambi, ha posto a carico dell’imprenditore alcuni obblighi probatori che hanno l’effetto di subordinare la deducibilità dei componenti negativi, derivanti dalle suddette operazioni, alle (logiche) condizioni che le stesse siano effettivamente avvenute e che siano state effettuate da una impresa che svolge prevalentemente una concreta attività commerciale o, in mancanza di quest’ultima prova, le operazioni corrispondano ad un effettivo interesse economico dell’impresa italiana.

Quella in esame è una delle tante disposizioni nate per contrastare l’utilizzo dei paradisi fiscali e che hanno trovato nella CFC legislation un ulteriore tassello normativo del nostro sistema tributario, sostanzialmente coevo.

In questi tempi l’amministrazione finanziaria si sta preoccupando di approfondire i contorni della norma fornendo numerosi chiarimenti sulle prove che le imprese italiane devono fornire al fisco in caso di contestazione (si ricordi anche la risoluzione citata in DDT n. 2/2005).

Non si rinvengono, invece, approfondimenti sulla parte della disposizione che obbliga le imprese nazionali a indicare separatamente, in dichiarazione dei redditi, i costi relativi a queste operazioni sotto pena di indeducibilità.

Proprio quest’ultima previsione desta, a mio avviso, qualche perplessità in ordine alla sua conformità alle regole costituzionali sulla determinazione del reddito.

In particolare, essendo il presupposto dell’Irpef basato sul possesso di un reddito, definito per l’impresa quale risultato aritmetico tra costi e ricavi, non appare conforme al principio di capacità contributiva  disconoscere un costo solo perché non si è specificato separatamente, in dichiarazione dei redditi, l’importo derivante da tali operazioni.

In altre parole, una volta sostenuto il costo, fatto transitare per le scritture contabili, per il conto economico e per la dichiarazione dei redditi – (solo) tramite la sua partecipazione al risultato d’esercizio – appare forzato disconoscerlo per non averne evidenziato a parte natura e importo.

Torna, qui, d’attualità il tema delle “sanzioni improprie”, definite quali sanzioni che alterano i criteri normativi di quantificazione del tributo, ampliando in modo fittizio la base imponibile.

I criteri guida stabiliti dal principio di capacità contributiva, infatti, fanno riferimento ad una concreta forza economica (ricchezza) prelevata con criteri ragionevoli e non arbitrari.

Per chiarire questo dubbio, cioè se si tratti di norma rispondente ai principi della “magna charta”, si rende necessario esaminare la posizione della Corte Costituzionale per comprendere i criteri qualificativi e poi confrontarli con le posizioni assunte nel tempo dalla dottrina.

Numerose pronunce della Corte affermano che la determinazione della quantità del tributo che il contribuente è tenuto a corrispondere può “ben essere dalla legge subordinata all’osservanza di un dato obbligo”.

Nel dettaglio, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, la subordinazione della deduzione dei costi all’osservanza di obblighi è giusta quando si tratti di obblighi mediante i quali il contribuente prova l’esistenza di fatti a sé favorevoli.

In particolare, con la sentenza n. 186/82, proprio in tema di sanzioni improprie (costi non annotati su apposite scritture, come il libro cespiti) la Corte ha rilevato come “la norma (si trattava dell’art. 74 del D.P.R. n. 597/1973 NDA)   che prevedeva l’indeducibilità di componenti negativi non riportati nelle scritture contabili e nel conto profitti e perdite,  avendo carattere meramente probatorio, opera in modo razionale e senza determinare situazioni di ingiustificata disparita' di trattamento, e senza violare il principio sostanziale della capacita' contributiva, in quanto e' in potere e dovere del contribuente di precostituire agevolmente la prova legale prevista dalla norma tributaria, che stabilisce come e quando debbano essere registrati costi ed oneri nelle adeguate scritture contabili”.

L’obbligo in questione è, a mio parere ed in via generale, già imposto dalle disposizioni dell’articolo 109,  che prevedono la deduzione per i componenti imputati a conto economico o comunque in base ad elementi certi e precisi.

Diversamente, la norma che stiamo trattando, articolo 110 del testo unico, non avrebbe carattere probatorio, bensì informativo, perché si propone di segnalare al fisco le situazioni potenzialmente lesive degli interessi erariali e consentire di verificare la corretta determinazione del tributo.

Vi è, quindi, uno scopo difforme da quello originariamente previsto dal vecchio art. 74 del D.P.R. n. 597/1973.

La conseguenza negativa che il legislatore collega all’omessa indicazione di tali componenti negativi, in quanto commisurata all’imposta, appare essere una “sanzione impropria”, che il  sistema vede ormai con sfavore.

Questa conclusione può essere corroborata dalla sentenza n. 103/1967 della Corte Costituzionale, che aveva ad oggetto la verifica di legittimità di una norma che maggiorava il reddito in caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi.

In quel caso era stata stabilita l’illegittimità della disposizione che aumentava la base imponibile dell’imposta sui redditi sulla base di un presupposto sganciato da alcun  “elemento concreto o indice positivo”.

Per altro verso, evidenziando l’impossibilità probatoria in cui si veniva a trovare il contribuente, concludeva:

“La norma denunciata preclude al contribuente di dimostrare di aver realizzato un reddito inferiore a quello iscritto a ruolo ed è del tutto irrazionale estendere tale preclusione all'aumento del 10 per cento. Per la parte in discussione la norma va quindi dichiarata costituzionalmente illegittima in riferimento all'art. 53 della Costituzione.”

Ecco l’identità con la fattispecie in esame: rendere indeducibile un costo equivale a tassare un reddito superiore.

Di conseguenza il contribuente che rispetta tutti gli altri requisiti dell’articolo 110 del Tuir, commi 10 e 11, ma non espone il costo nel rigo appropriato del modello dichiarativo, si espone ad una sanzione irrazionale sproporzionata rispetto alla gravità della violazione.

Insomma, il contribuente che assolve ai requisiti dell’articolo 109 Tuir è in grado di dimostrare il sostenimento del costo ma risulta sanzionabile se omette di segnalare la presenza delle operazioni nella dichiarazione dei redditi.

La misura della sanzione, tuttavia, non può risultare quale tassazione di una capacità contributiva fittizia.

E’ pur vero che in altre occasioni la stessa Corte Costituzionale ha affermato che la determinazione della quantità del tributo che il contribuente è tenuto a corrispondere ben può essere dalla legge subordinata all’osservanza di un dato obbligo, quando non defatigante o eccessivo; tuttavia la dottrina ha da sempre criticato tale interpretazione perché si porrebbe in contrasto con il principio di capacità contributiva, tassando un reddito non reale (né verosimile).

In particolare, trattando di obblighi a carico del contribuente, De Mita osserva:

“Ora bisogna vedere, secondo me, di quali obblighi si tratti perché dalla loro inosservanza possa discendere una determinazione dell’imposta parzialmente sganciata dalla capacità contributiva. La subordinazione dell’imposta all’osservanza di obblighi è giusta quando si tratti di obblighi mediante la cui osservanza il contribuente prova l’esistenza di fatti a sé favorevoli, quando l’accertamento di tali fatti cioè è rimesso alla sua collaborazione.”

Il contribuente assolve l’obbligo, imposto solo ai fini probatori, con la registrazione in contabilità e l’esposizione nel conto economico.

La omissione dell’indicazione separata in dichiarazione dei redditi non impedisce  la corretta ricostruzione del fatto ma rende più difficoltosa l’individuazione dei soggetti che hanno effettuato operazioni a rischio.

E’ una questione che deve essere risolta in ambito sanzionatorio e non ripercuotersi nella misurazione dell’imposta.

Insomma a mio modo di vedere la norma che sanziona con l’indeducibilità del costo l’omessa indicazione separata del costo in dichiarazione dei redditi appare incostituzionale, poiché la violazione dell’obbligo non manifesta alcuna capacità contributiva, ed è assolutamente sproporzionata, se intesa in chiave sanzionatoria, rispetto all’entità della violazione ed al pericolo per l’Erario.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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