Dalla
rivista “Il Fisco” n. 17/2003
La giurisprudenza conferma il valore
interpretativo dello Statuto del Contribuente
Di Alberto Buscema
Dottore Commercialista in Padova
Premessa
L’esigenza di norme quali quelle
contenute nello Statuto del contribuente si poteva dedurre da una semplice
osservazione: l’ordinamento tributario non conosce regole comuni a tutte le imposte.
In conformità al dettato
dell’articolo 53 della Costituzione ciascuna imposta è agganciata al
principio di capacità contributiva
assumendo ognuna uno specifico indice segnaletico rivelatore di
ricchezza.
Analizzando il sistema ci si accorge
che ogni imposta è regolata minuziosamente in base a regole che sono
dettate in coerenza col proprio presupposto. Anche molte regole procedurali
sono settorializzate e quindi rispettano questa partizione.
La necessità della redazione di
principi del sistema era avvertita
già ai tempi dell’Allorio il quale evidenziava questa anomalia tipica della
materia tributaria.
Recentemente acuta dottrina, sulla scia
di quanto già indicato da illustri studiosi quali il Vanoni, tenta di
rivalutare il concetto secondo il
quale vi deve essere identità di disciplina tra diverse sezioni del diritto là dove sono identiche le necessità e le
funzioni che ispirano il legislatore, ritenendo valido questo principio
anche nel diritto tributario.
E procede “Ora, quando avvenga che un
istituto tributario sia stato elaborato con riguardo ad un tributo, ma
senza essere necessariamente legato alla particolarità del relativo presupposto
economico, la mancata applicazione di esso ad altri tributi, dove esistono
le stesse esigenze, porta alla disparità di trattamento qualora non si
riconosca a quella disposizione la portata di norma generale; a meno che
non si ravvisi in essa una assoluta <irragionevolezza>, nel qual caso
è essa che deve essere dichiarata incostituzionale”.
E’ chiaro che in assenza di
disposizioni generali scritte diventa difficile per il contribuente, ma
spesso anche per chi lo assiste, giustificare con adeguata sensibilità
l’utilizzo di un istituto mutuato da un altro settore impositivo.
L’esigenza di principi
generali ispirata dalla dottrina, confermata dalla giurisprudenza e
codificata dal legislatore
Un esempio valga per tutti.
In tema di accertamento delle imposte
dirette è noto che, in virtù dell’articolo 42 del D.P.R. 600/1973, l’avviso
di accertamento è nullo se manca di motivazione.
Nei primi anni di vigenza della
riforma tributaria ci si interrogò se questo principio potesse valere anche
ai fini delle imposte sui trasferimenti: non vi era, infatti, alcuna norma,
nell’ambito di queste imposte, che ne sancisse la nullità.
La giurisprudenza mostrò tutta
l’incertezza nel decidere se applicare una “norma non scritta”.
Le prime pronunce affermavano la
legittimità di un atto di accertamento indicante il diverso valore attribuito dall’ufficio ad ogni singolo
bene, per il quale era stato ritenuto incongruo il valore indicato dalle
parti, senza che necessitasse di ulteriore motivazione; si ritenne, in
sostanza, che il principio della nullità dell’atto amministrativo non
motivato previsto per le imposte dirette non fosse applicabile alle
indirette.
Seguirono accese dispute tra
l’amministrazione finanziaria e i contribuenti che portarono a riconoscere
la necessarietà della motivazione, sotto pena di nullità dell’atto, anche
nell’ambito delle imposte sui trasferimenti.
D’altra parte quale era la ratio che
aveva indotto il legislatore a prevedere questo principio nell’articolo 42
del D.P.R. 600/1973? Se il valore sotteso era quello, costituzionalmente
garantito, di tutelare il diritto di difesa del contribuente questo doveva
valere per ogni atto tributario.
Successivamente, con la legge n.
241/1990, si introdusse una norma che impone l’obbligo di motivare ogni
provvedimento amministrativo.
Quindi vediamo che la dottrina ha
estrapolato dei principi dalla lettura sistematica dell’ordinamento, la
giurisprudenza ha riconosciuto la bontà di quella interpretazione e il
legislatore ne ha consacrato la validità.
Tutto questo ciclo ha richiesto
diversi anni, durante i quali l’incertezza ha permesso di confezionare
accertamenti privi di caratteristiche di primaria importanza, in
violazione, possiamo dire ora, di principi costituzionali .
L’elaborazione dello Statuto del
Contribuente ha richiesto anni di gestazione prima di essere approvato.
Le norme dello Statuto si sono
autoproclamate “principi generali dell’ordinamento tributario” in
attuazione degli artt. 2, 23, 53 e 97 della Costituzione; ma dopo la sua
promulgazione alcuna pubblicistica, perlopiù di estrazione ministeriale, ne
ha contestato la validità.
Alcuni interventi negavano che a una
legge ordinaria potessero attribuirsi le caratteristiche di una
“superlegge” essendo necessario uno Statuto in forma di legge
costituzionale per contenere principi generali vincolanti.
La chiara
lettura da parte della Cassazione
L’intervento della giurisprudenza non
si è fatto attendere e non ha mostrato incertezze.
La prima sentenza della Suprema
Corte, che conferisce allo Statuto il valore interpretativo che la stessa
legge si prefiggeva di fornire al contribuente, è stata pronunciata il 7
dicembre 2000, la n. 4760 depositata il 30 marzo 2001.
Nella motivazione si legge che la
lettura dell’articolo 6, inquadrato nella enunciazione di cui all’articolo
1 della medesima legge, assume un inequivocabile valore interpretativo.
“Si tratta, cioè, di un principio che deve aiutare l’interprete a ricavare dalle norme il senso che le
renda compatibili con i principi costituzionali citati”.
Si assiste qui ad una primo approccio
della giurisprudenza che contiene un preciso orientamento interpretativo
volto a valorizzare il contenuto del richiamo fatto all’articolo 1 ai
principi espressi dagli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione.
La conferma e il rafforzamento di
questo primo orientamento viene con la recente sentenza n. 17576 del 12
febbraio 2002, depositata il 10 dicembre 2002, con la quale la Cassazione
ritorna sull’argomento ed estende la sua lettura.
Pur esplicitando nella motivazione
che la soluzione ai dubbi sulla
efficacia delle disposizioni statutarie, dal punto di vista del sistema
costituzionale delle fonti, non rileva immediatamente in quella sede (di
giudizio) e con riferimento alla fattispecie in esame, la Suprema Corte ha modo di affermare che alle specifiche
“clausole rafforzative” di autoqualificazione delle disposizioni stesse
come attuative delle norme costituzionali e come principi generali
dell’ordinamento tributario deve essere attribuito un preciso valore
normativo”.
In questo brano della motivazione si
assiste ad una lettura sostanziale delle disposizioni in esame, evitando
quindi ogni ostacolo formale riguardo all’efficacia di norme sulla
normazione contenute in legge ordinaria.
La sentenza procede ad enucleare la
valenza specifica delle disposizioni dello Statuto attribuendo ad essi
il significato di:
1)
principi generali del diritto,
dell’azione amministrativa e dell’ordinamento particolare tributari;
2)
principi fondamentali della
legislazione tributaria;
3)
principi fondamentali della
materia tributaria;
4)
norme fondamentali di grande
riforma economico sociale.
La Corte conferisce massima
importanza all’intenzione del legislatore di proclamare la superiorità assiologica
delle norme della legge 212/2000 e sostiene la idoneità dei principi
dell’ordinamento ivi contenuti ad orientare l’interprete in maniera
vincolante.
Ogni dubbio interpretativo che
riguardi una questione regolamentata dallo Statuto, quindi, deve essere
risolta nel senso più conforme ai principi da esso dettati.
La lettura della Corte di Cassazione
continua argomentando che se sono stati emanati decreti legislativi di
correzione di norme tributarie esistenti, al fine di rendere coerente le
leggi tributarie vigenti con i principi dello Statuto, identica coerenza deve
essere adottata dall’interprete nell’esercizio della sua attività al fine
di correggere tutte le altre norme che non sono state corrette dal
legislatore delegato.
Questa sentenza è di grande momento e
conferma la determinante forza dei principi contenuti nella legge 212/2000,
proprio come era nell’intenzione dei suoi redattori.
Dopo tali argomentazioni appaiono
indebolite le tesi che volevano considerare queste norme quali
programmatiche e non precettive poiché basate su una autoqualificazione non
ammessa e poiché sfornite di chiari riferimenti testuali alla nullità degli
atti conseguente all’inosservanza di
queste disposizioni.
A parte l’ultimo inciso dell’articolo 6, infatti,
non si rilevavano altre disposizioni, nel corpo dello Statuto, che
stabilissero sanzioni a carico dei provvedimenti emanati in violazione
delle norme in esso contenute.
Questa sentenza nel chiarire che
l’interpretazione conforme allo Statuto
si risolve nell’interpretazione conforme alle norme costituzionali
richiamate, fornisce la precisa indicazione che ogni provvedimento emanato
in violazione delle norme “statutarie” si risolve nella nullità dell’atto.
E’ evidente, infatti, che qualsiasi
atto emesso in violazione di norme costituzionali è da considerarsi nullo
poiché, come ha avuto modo di dichiarare la prima sentenza nella storia
della Corte Costituzionale, tutte le norme della Costituzione sono
precettive (e non programmatiche, come qualcuno sosteneva all’indomani
dell’approvazione della Costituzione Italiana).
Di estrema attualità diventa anche il
principio espresso dall’articolo 3, comma 3, della legge n. 212/2000 “I
termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non
possono essere prorogati”.
Infatti si poteva profilare la
incostituzionalità dell’articolo 10 della legge 27 dicembre 2002 n. 289,
che disponeva la proroga di due anni per la notifica di avvisi di
accertamento iva e irpef a carico dei contribuenti che non si avvalgono dei
condoni.
L’articolo 1 dello Statuto dispone
che le disposizioni in esso contenute “possono essere derogate o modificate
solo espressamente e mai da leggi speciali”.
Coordinando gli articoli 1 e 3 si
ricava il principio che, in assenza di una deroga espressa, i termini di
prescrizione e di decadenza per gli accertamenti d’imposta non possono
essere prorogati.
Applicando l’interpretazione fornita
dall’ultima sentenza della Cassazione citata si poteva prospettare
l’incostituzionalità dell’articolo 10 della legge n. 289/2002 poiché non
conteneva una deroga espressa alle disposizioni dello Statuto.
La modifica alla norma, contenuta in
un disegno di legge, permetterà di risolvere la questione.
Anche questo intervento legislativo
dimostra la superiorità assiologica delle disposizioni Statutarie, ad
ulteriore conferma dell’indirizzo interpretativo sin qui commentato.
Conclusioni
La Suprema Corte di Cassazione è
giunta velocemente ad approvare l’impianto normativo dello Statuto del
Contribuente.
Il cittadino che paga le imposte
potrà ora contare su norme chiare che
offrono una efficace tutela.
Mancano ancora molte disposizioni che
stabiliscano i principi dell’ordinamento tributario. Le disposizioni dello
Statuto infatti, per quanto ormai si possa cominciare a sostenere che siano
dotate di una “forza superiore”, riguardano alcuni diritti che si sentiva
l’esigenza di stabilire a favore del contribuente.
Ma molti altri principi
dovrebbero essere fissati per risolvere l’estrema frammentarietà del
sistema al fine di rendere omogenea l’applicazione di vari istituti che
sono sganciati dal presupposto della particolare imposta e che meritano di essere regolamentati in modo
uniforme.
Questo ambizioso progetto dovrebbe
trovare finalmente cittadinanza nel nostro diritto tributario con l’entrata
in vigore dell’emanando “codice tributario” che, nelle intenzioni dei
redattori, presenterebbe una parte generale contenente le disposizioni
sulla legge tributaria, concretizzando così, dopo molti anni, le
indicazioni fornite dai primi illustri studiosi della materia .
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