Da “Il Fisco” n. 17/2006
La disciplina dei contratti di cointeressenza nel testo unico delle
imposte sui redditi, tra salti d’imposta e mancati coordinamenti
Di
Alberto Buscema
Dottore
Commercialista in Padova
Il contratto di cointeressenza,
regolato dall’articolo 2554 del codice civile, è un figura giuridica
affine a quella dell’associazione in partecipazione, quest’ultima
disciplinata dall’articolo 2549 del codice civile.
L’associazione in
partecipazione prevede che un imprenditore conceda ad un terzo di
partecipare agli utili della sua impresa in cambio di un determinato
apporto.
Si tratta, in
altre parole, di un contratto sinallagmatico, parola di etimologia greca
che significa “relazione di scambio”.
Non è pertanto,
nonostante il nome, un contratto associativo.
Tuttavia, nel
testo unico delle imposte sui redditi, è stato assimilato, di fatto, ad
un contratto associativo, poiché:
1) gli utili
conseguiti da persona fisica non imprenditore, derivanti da tale
rapporto, sono tassati allo stesso modo degli utili di partecipazione in
soggetti Ires;
2) in capo
all’associante la remunerazione corrisposta all’associato resta
indeducibile, come fosse un utile da distribuire e non più un costo;
l’unica eccezione a questa regola riguarda il contratto che preveda
apporti di opere e servizi.
La ragione di
questa impostazione, voluta dal legislatore, si rinviene nella “Relazione allo schema di decreto
legislativo recante riforma dell’imposizione sul reddito delle società in
attuazione dell’articolo 4, comma 1, lettere da a) a o), della legge 7
aprile 2003, n. 80”, dove, nelle delucidazioni riguardanti i
redditi di capitale, si specifica:
“Al fine di evitare abusi nell’utilizzo
dei contratti di associazione in partecipazione, il provvedimento in
esame modifica radicalmente il regime fiscale di tali contratti
stabilendo che non è deducibile in capo all’associante ogni tipo di
remunerazione dovuta relativamente ad essi allorché sia previsto un
apporto diverso da quello di opere e servizi”.
Sin qui
l’associazione in partecipazione.
Esaminiamo ora il
contratto di cointeressenza, che può assumere, come vedremo, connotazioni
diverse.
La cointeressenza
viene definita “impropria” quando l’impresa associante attribuisce al
cointeressato una partecipazione ai soli utili dell’impresa associante,
verso il corrispettivo di un apporto; prende il nome di “propria” in
assenza di un apporto da parte del cointeressato, che partecipa sia agli
utili che alle perdite.
E’ giusto che la
cointeressenza propria sia fiscalmente
regolamentata in maniera difforme dal contratto di associazione in
partecipazione (e di cointeressenza impropria) poiché, concettualmente,
nel primo contratto vi è un alea che non consente di pianificare travasi
di utili, potendo dar luogo al conseguimento di perdite.
In altre parole,
nei contratti di associazione in partecipazione e di cointeressenza
impropria, in assenza dell’assimilazione agli utili provenienti da
soggetti Ires, stabilita dal legislatore fiscale ai fini delle imposte
sui redditi, si potrebbero pianificare operazioni vantaggiose che
permettono di incanalare gli utili verso determinati soggetti, con
rischio di perdite minime (al massimo si perde il valore dell’apporto)
nel primo contratto e nulle nel secondo. Mentre nella cointeressenza
propria vi è un rischio, non quantificabile, di realizzare perdite,
remunerato con gli eventuali utili.
Queste linee, che
hanno guidato il legislatore nella riforma, sono state tramutate in
disposizioni per certi versi chiare - penso all’articolo 109, comma 9,
lettera b) del Tuir – e per altri ambigue, come si evince(va)
dall’articolo 47, comma 2), del Tuir.
L’articolo 109,
comma 9, lettera b), è chiaro nella sua formulazione che prevede
l’indeducibilità, dal reddito d’impresa, delle remunerazioni derivanti
dai contratti di associazione in partecipazione, espressamente citati, e
da quelli di cointeressenza impropria, rientranti nella fattispecie per
effetto del richiamo all’art. 2554 c.c. e per la previsione di un
apporto.
Come abbiamo già
visto è proprio la presenza di un apporto a distinguere la cointeressenza
impropria da quella propria.
L’ambiguità
deriva(va) dalla formulazione dell’art. 47, comma 2, del tuir, che,
provvedendo ad assimilare il trattamento fiscale degli utili -
distribuiti da soggetti Ires a persone fisiche non imprenditori – agli “utili derivanti dai contratti di cui
alla lettera f) dell’art. 44”, ha indotto in errore parecchi
commentatori.
A questa imperfezione
ha posto fine il Decreto Legislativo approvato il 18 novembre 2005 dal
Consiglio dei Ministri.
E’ necessario
dimostrare perché la precedente formulazione era sbagliata.
L’articolo 44, comma
1, lettera f) del Tuir, annovera tra i redditi di capitale, oltre agli
utili derivanti da associazioni in partecipazione, quelli derivanti “…dai contratti indicati nel primo comma
dell’art. 2554 del codice civile…” .
Per comprendere
il trattamento fiscale degli utili derivanti da tali contratti si rende
necessaria la lettura dell’articolo 47, comma 2 del Tuir, il quale così
inizia:
”Gli utili derivanti dai contratti di
cui alla lettera f) dell’articolo 44 …”.
Tra questi vi
sono indubbiamente i contratti di cointeressenza, poiché, come visto
prima, sono ricompresi in quella lettera.
Tuttavia
continuando nella lettura della disposizione si evince che
l’assimilazione impositiva agli
utili distribuiti da soggetti Ires – che comporta una tassazione
sul solo 40% dell’utile percepito - si configura solo “…qualora il valore dell’apporto sia superiore…” a
determinati parametri.
Pertanto, i
contratti di cointeressenza propria, non prevedendo per natura alcun
apporto, non rientrano in questa
disposizione.
Vi è un’altra
disposizione che tratta del regime impositivo da riservare agli utili
derivanti da contratti di associazione in partecipazione.
Si tratta
dell’articolo 27 del DPR 600/1973,
nel quale, al comma 1, trovano collocazione i contratti di associazione in
partecipazione “qualora il valore
dell’apporto …” sia
inferiore agli stessi parametri che abbiamo accennato sopra.
In questo caso i
percipienti persone fisiche non esercenti attività d’impresa commerciale
vengono assoggettati alla ritenuta d’imposta nella misura del 12,50%.
Gli utili
derivanti dai contratti di cointeressenza propria, tuttavia, non trovano
regolamentazione nemmeno in questa disposizione.
Ne risulta che,
poiché comunque i redditi de qua
sono compresi nell’articolo 44 del Tuir, sono applicabili le disposizioni
dell’articolo 45, che dispone la determinazione del reddito di capitale.
In particolar
modo trovano applicazione le disposizioni generali sulla quantificazione
dei redditi di capitale, di cui al comma 1:
”Il reddito di capitale è costituito
dall’ammontare degli interessi, utili o altri proventi percepiti nel
periodo d’imposta, senza alcuna deduzione”.
Insomma il
reddito di capitale derivante dai contratti di cointeressenza propria
risulterà concorrere al reddito complessivo del percipiente nella misura
piena.
Dal punto di
vista dell’impresa erogante si applica l’articolo 109, comma 9, lettera
b) la quale permette la deduzione dell’utile erogato.
Infatti, anche
qui, si parla di “… contratti di
associazione in partecipazione e… di cui all’articolo 2554 del codice
civile, allorché sia previsto un apporto…”.
Se ne conclude
per la perfetta simmetria del trattamento impositivo in capo all’erogante
e al percipiente, poiché entrambi faranno concorrere nella misura intera
il componente alla propria
categoria di reddito, l’uno quale costo e l’altro quale componente
positivo.
Dicevamo che il
Decreto Legislativo recentemente approvato aiuta a chiarire questo
percorso impositivo, dissipando le ambiguità del precedente testo di
legge.
Infatti,
l’articolo 2, comma 2, apporta modificazioni al comma 2 dell’articolo 47
del tuir, prevedendo che le parole “Gli
utili derivanti dai contratti di cui alla lettera f) dell’art. 44” siano sostituite da “Le remunerazioni
dei contratti di cui all’articolo 109, comma 9, lettera b).”
Il precedente
testo induceva in errore proprio perché, citando i contratti di cui
all’art. 44 lettera f), faceva riferimento anche ai contratti di
cointeressenza propria, escludendoli “di fatto” qualche riga dopo nella
parte in cui si faceva riferimento ad apporti qualificati.
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Con il Decreto
Legislativo viene corretta un’ altra imperfezione, questa volta non solo
formale, ma sostanziale, che riguarda i contratti di cointeressenza
propria.
Si tratta, in
questo caso, della disciplina fiscale che riguarda il cointeressato,
persona fisica, titolare di redditi d’impresa.
In base a quanto
prevedeva il “vecchio” articolo 59, comma 2, del tuir “gli utili derivanti dai contratti di cui alla lettera f) del
comma 1 dell’art. 44 non concorrono alla formazione del reddito
complessivo dell’esercizio in cui sono percepiti, in quanto esclusi,
limitatamente al 60% del loro ammontare.”
Coordinando
l’articolo 109, comma 9, lettera b), con quest’articolo, relativamente ai
contratti di cointeressenza propria, succedeva che il componente negativo
di reddito poteva essere dedotto dal cointeressante, poiché, come più
volte detto, il contratto non prevede alcun apporto. Mentre per il
percipiente persona fisica, che faceva partecipare questo componente al
reddito d’impresa, si aveva una tassazione solo sul 40%, dando luogo ad
un parziale salto d’imposta.
Ecco
l’incredibile “disallineamento”.
Il decreto
legislativo in esame, con l’articolo 3, comma 2, riformula l’articolo 59
del Tuir, così disponendo:
“Gli utili relativi alla partecipazione
al capitale o al patrimonio delle società e degli enti di cui all’art.
73, nonché quelli relativi ai titoli e agli strumenti finanziari di cui
all’art. 44, comma 2, lettera a), e le remunerazioni relative ai contratti
di cui all’art. 109, comma 9, lettera b), concorrono alla formazione del
reddito complessivo nella misura del 40% del loro ammontare,
nell’esercizio in cui sono percepiti. Si applica l’articolo 47, per
quanto non diversamente previsto dal periodo precedente”.
In base a questa
disposizione il contratto di cointeressenza, uscendo da queste
previsioni, trova il suo giusto trattamento, partecipando al reddito
d’impresa in misura piena per effetto
degli articoli 44, primo comma, lettera f) e 48, commi 1 e 2 del
tuir.
Conseguentemente
si ottiene un trattamento fiscale coerente, poiché analogo a quello
dichiarato dal percettore del reddito di capitale.
Le conclusioni
raggiunte tramite il primo percorso
interpretativo, quello che riguarda la tassazione del componente
percepito dal cointeressato quale reddito di capitale, erano già
agevolmente ricavabili dal precedente panorama normativo; le disposizioni
appena approvate, conferendo
chiarezza al testo normativo, permettono di ripudiare con certezza ogni
diversa conclusione, eliminando eventuali dubbi interpretativi.
Non così per
quanto riguarda le disposizioni che affrontano la cointeressenza nel
reddito d’impresa, che innovano la
sua regolamentazione e conferiscono una corretta sistemazione alla
fattispecie, stabilendo il corretto equilibrio di simmetria impositiva.
Tuttavia ci si
chiede se questa correzione sia stata veramente voluta dal legislatore
oppure sia solo il risultato di un incidente di percorso, incredibilmente
con effetto riequilibrativo.
Questo dubbio è generato dalla lettura della relazione
illustrativa al correttivo Ires, dove si informa che queste norme sono
finalizzate a correggere meri errori ovvero ad introdurre maggiore
chiarezza nella lettura complessiva del tuir.
Poiché vengono regolamentati solo aspetti formali, si consentirebbero alla disposizione, come
vedremo, effetti retroattivi.
La relazione così insiste:
“Si tratta,
comunque, di disposizioni che non hanno effetti sulla determinazione del
reddito o, comunque, i riflessi non sono mai negativi per i contribuenti”.
Se questa è la
convinzione del legislatore ci troviamo di fronte ad una evidente svista,
perché abbiamo dimostrato che la
disposizione incide nella determinazione dell’imposta.
A questo punto,
poiché ci si trova di fronte ad una disposizione non meramente formale,
ma sostanziale - poichè evita il parziale salto d’imposta - si pone
l’essenziale problema della sua corretta decorrenza.
Il Decreto
Legislativo, ritenendo che la modifica sia solo formale, all’articolo 3,
comma 4, ne stabilisce la
retroattività al 1 gennaio 2004.
Ma questa è, si
insiste, una disposizione innovativa, che incide sull’imposizione.
Ecco perché trova
applicazione l’articolo 3 della legge n. 212/2000 – meglio nota come
“Statuto del Contribuente” – che così, autorevolmente, stabilisce:
“Relativamente ai tributi periodici le
modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta
successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle
disposizioni che le prevedono”.
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