Dalla
rivista “Il Fisco” n. 33/2003
Contenzioso
Ilor: l’occupazione prevalente va interpretata in termini di tempo.
Di Alberto Buscema
Dottore Commercialista in
Padova
Premessa
Nonostante la sua abolizione l’imposta
locale sui redditi rappresenta tuttora motivo di controversie con
l’amministrazione finanziaria a causa delle diverse opinioni sulla
portata delle norme.
I termini per l’accertamento
relativo agli anni in cui l’Ilor era in vigore non sono ancora prescritti.
Numerosi avvisi di accertamento
notificati ai contribuenti riguardano il punto delle deduzioni spettanti
al socio o al titolare dell’attività commerciale o agraria.
In particolare si assiste a
numerose contestazioni incentrate, perlopiù, sul concetto di occupazione
prevalente, intesa recentemente dall’amministrazione finanziaria quale
requisito verificabile tramite il ricorso a parametri reddituali piuttosto che temporali.
In questo lavoro si tratterà
proprio della valenza di questi concetti rispetto alla ratio della norma
in esame, iniziando la verifica dalle origini dell’imposta, al fine di
comprendere pienamente il significato applicativo e poter efficacemente
argomentare sulle conclusioni raggiunte.
L’origine dell’imposta locale sui
redditi
Il tributo fu inizialmente ideato
dalla Commissione Cosciani quale imposta patrimoniale che doveva incidere
la maggiore capacità contributiva dei possessori di cespiti patrimoniali.
La prospettazione di una incisione
dei patrimoni provocò dure reazioni che costrinsero a modificare
l’oggetto dell’imposta, nell’ambito del disegno di legge, da patrimoniale
a reddituale: venivano, in sostanza, incisi i redditi derivanti
dall’impiego di patrimoni e non
più la prorpietà di cespiti patrimoniali.
Questa inversione di rotta venne
giustificata sostenendo che in Italia risulterebbe difficile accertare la
consistenza e quindi l’accertamento dei patrimoni.
Successivamente, una ulteriore
modifica, apportata in sede di approvazione della legge delega, permise,
per i primi anni di applicazione dell’imposta, che fossero incisi anche i
redditi di lavoro autonomo dando luogo così ad una imposta ibrida che
tradiva i principi ispiratori del tributo.
Il nuovo riferimento era contenuto
nell’articolo 4 della legge delega 9 ottobre 1971, n. 825, la quale dettò
i principi e i criteri che permisero l’innesto dell’imposta locale sui
redditi nel nostro ordinamento tributario ad opera del D.P.R. 29
settembre 1973, n. 599.
Il progetto originario ne risultò
stravolto e l’estensione a questi ultimi soggetti appariva irragionevole.
A ripristinare il corretto
funzionamento del tributo, in termini di imposta sui redditi di capitale,
pensò la Corte Costituzionale che, investita di varie questioni tendenti
ad evitare l’applicazione dell’imposta a carico dei lavoratori autonomi,
con la sentenza 26 marzo 1980, numero 42, dichiarò l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 4, n. 1 della legge 9 ottobre 1971, n. 825,
e dell’articolo 1, secondo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 599,
in quanto non escludevano i redditi di lavoro autonomo dall’imposta
locale sui redditi.
L’imposta, così modificata, venne
successivamente trasfusa nel testo unico delle imposte sui redditi con il
D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 e rimase in vigore fino a tutto il 1997,
anno in cui venne abolita dall’articolo 36, comma 1, lettera b), del
D.Lgs. n. 446 del 15 dicembre 1997.
Questo breve excursus storico si è
reso necessario per comprendere l’oggetto dell’imposta, la quale deve
colpire i redditi di natura patrimoniale lasciando indenni i redditi di
lavoro.
A questo fine sono state pensate le
deduzioni previste dall’articolo 120 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
Esse devono consentire l’esclusione
dall’applicazione dell’imposta di quella parte di redditi d’impresa ed agrari
riferibili, con approssimazione, al lavoro dell’imprenditore o del socio.
La norma che tratta
dell’occupazione prevalente
L’articolo 120 del Tuir prevede una deduzione
dal reddito agrario e d’impresa per le persone fisiche e le società
titolari di questi redditi a condizione che “il contribuente presti la
sua opera nell’impresa e tale prestazione costituisca la sua occupazione
prevalente”.
Il comma 4 estende questa previsione “ai soci
che prestano la propria opera nell’impresa come occupazione prevalente…”.
Il riferimento è ai soci di società semplici,
in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio
dello Stato.
La lettura di questo periodo
normativo non sembrerebbe equivoca poiché non appare difficile riempire di
significato la locuzione
“occupazione prevalente”.
Tuttavia l’amministrazione
finanziaria, nonché parte della giurisprudenza che andremo ad analizzare,
ritiene che sia possibile confutare la spettanza della deduzione in base
a parametri reddituali, poiché consentirebbero da soli di stabilire
l’attività che ha richiesto l’impiego di maggiori risorse lavorative
personali.
Più in dettaglio secondo il
Tribunale di Busto Arsizio, sent. n. 222 del 22 aprile 1995, “l’attività
prestata dai soci, a fronte del maggior reddito di lavoro autonomo dagli
stessi percepiti per l’attività di amministratore svolta nell’ambito della società, non può
considerarsi occupazione prevalente e, pertanto, in tale ipotesi non
sussistono le condizioni di legge per la deduzione dell’imposta”.
La Corte di appello di Firenze,
sez. I penale, sent. n. 876 del 16 gennaio 1996, occupandosi di chiarire
quale fosse l’attività prevalente,
ha avuto modo di affermare che si ritengono prevalenti, sotto il
profilo quantitativo, i redditi percepiti in attività diverse da quella
di socio. Addirittura questa corte ritenne che, in questa fattispecie,
l’attestazione del socio fosse solo finalizzata ad ottenere benefici
fiscali non dovuti e quindi da ritenersi falsa e tale da configurare un
reato.
La sentenza si riferisce
testualmente al concetto di “attività prevalente” e non puntualmente,
come prevede la norma, alla “occupazione prevalente”. Forse è solo una
inesattezza espressiva ma potrebbe anche essere la giustificazione di una
decisione sbagliata poiché impostata su un concetto errato.
Risulta evidente che argomentare in
termini di “attività” prevalente giustifica ampiamente il ricorso al
parametro reddituale; non così quando ci si riferisce alla “occupazione”
prevalente, che richiama l’impegno lavorativo profuso nell’attività.
Altra giurisprudenza condivide
quest’ultima interpretazione ritenendo che il requisito dell’occupazione
prevalente vada interpretato con
riguardo alla prevalenza di tempo
dedicato ad una impresa rispetto alle altre.
In questo senso si esprime gran
parte della giurisprudenza,
concorde nell’individuare nel fattore “tempo”, e non in quello di
“reddito”, l’elemento discriminante tra le differenti occupazioni del
socio. (Comm. Centr. n. 4526 del 12.06.1990 - Comm. I grado Treviso n.
425 del 28.02.1983 - Comm. I grado Belluno n. 490 del 26.09.1990).
Così si è espressa anche la
Commissione Tributaria Regionale dell’Umbria, sentenza 5.11.2002 n. 696, pur facendo leva sul
concetto di “prevalenza” in abbinamento a quello di “occupazione”.
Questa giurisprudenza ritiene che
“Per interpretare ed applicare tale dettato normativo occorre,
necessariamente, definire il concetto di prevalenza; in linea generale la
prevalenza può essere valutata sia con riferimento alla quantità di tempo
che si dedica ad una occupazione piuttosto che ad un’altra, sia con
riferimento alla remunerazione economica che le due attività producono”.
E continua “Sempre in via generale
il criterio temporale è senz’altro preferibile, in quanto più rispondente
alla lettera della norma in questione;”.
Dal mio punto di vista il
termine “occupazione” non può in
alcun modo evocare il parametro reddituale.
L’aggancio al parametro reddituale
potrebbe essere condiviso se a parità di tempo dedicato ad ogni singola e
diversa attività od occupazione si conseguisse lo stesso reddito.
Il che appare molto improbabile e
casuale.
Recenti sentenze della Commissione
Tributaria Regionale della Lombardia hanno così concluso:
-
- come occupazione prevalente deve considerarsi la
quantità di attività lavorativa svolta nell’ambito dell’impresa rispetto
ad altre eventuali attività e non alla qualità e redditività delle
rispettive attività, sentenza del 18.06.2002 n. 225;
-
- non può avere rilevanza il fatto che, per l’attività
di amministratore, il contribuente abbia percepito un reddito superiore
rispetto a quello dichiarato come socio, atteso che deve aversi riguardo,
ai fini del riconoscimento della deduzione, all’occupazione prevalente e
non alla somma riscossa per l’attività di amministratore.
Vorrei aggiungere un ragionamento
che può convincere ulteriormente sulla correttezza dell’ultima sentenza
citata.
Il compenso all’amministratore
viene solitamente deciso nel corso del periodo d’imposta e verbalizzato
nel libro delle decisioni dei soci.
Poiché la decisione avviene durante
il periodo d’imposta, spesso nei primi mesi dell’anno, è evidente che non
si sappia ancora se la remunerazione dell’amministratore sarà superiore
alla sua quota di utili (a meno che non si decidano compensi esorbitanti,
che rischiano, però, di portare in perdita la società).
Appare illogico stabilire ex post,
cioè alla chiusura del periodo d’imposta, momento in cui risulta palese
la quota di utili che spetta al socio che ricopre anche la carica di
amministratore, qual è stata l’occupazione prevalente.
In altre parole è irragionevole, in
questo specifico caso, sostenere la validità del parametro reddituale
poichè la fruizione della deduzione sarebbe lasciata al caso, scoprendo
solo alla chiusura dei conti qual’è stata l’occupazione prevalente.
Quale illogica appare la
soluzione da scartare.
Conclusioni
Sono convinto che la posizione
della finanza sia in realtà di mera tattica processuale volta a richiedere
al contribuente di fornire la prova che consenta di fruire della
deduzione.
Sappiamo che è infatti il
contribuente a dover dimostrare di aver diritto alle deduzioni di cui ha
fruito in sede di calcolo dell’imposta.
E risulta alquanto difficile per lo
stesso contribuente fornire la prova della quantità di lavoro prestata in
una certa attività piuttosto che in altra.
La leva psicologica
appare quindi forte per far sì che molti preferiscano pagare somme che si
avvicinino perlomeno alle spese di difesa piuttosto che affrontare un
contenzioso che rischi di chiudersi a “spese compensate”.
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