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Le Commissioni tributarie sanano i difetti di prova?

 

Di Alberto Buscema

Dottore Commercialista in Padova

 

La Corte di Cassazione, con la sentenza datata 1 luglio 2003, n. 10374, è intervenuta nel delicato tema dei poteri delle commissioni tributarie stabilendo che le stesse, in quanto dotate di potere estimativo anche sostitutivo, possono prescindere dagli accertamenti dell’ufficio e dagli eventuali difetti di prova del loro assunto acquisendo “aliunde” gli elementi per la decisione.

La questione  si rivela interessante e va analizzata attentamente al fine di comprendere la correttezza delle conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte.

La questione era già stata oggetto di un acceso dibattito dottrinale in tempi non proprio recenti.

Per una parte della dottrina siffatta lettura normativa avrebbe comportato non solo un indebolimento delle garanzie difensive del contribuente ma anche una estensione del potere amministrativo, poiché un accertamento mal formulato avrebbe potuto essere corretto dagli organi giurisdizionali.

Ripercorrere la vicenda giudiziaria potrà aiutare a comprendere lo svolgimento dei fatti.

La materia del contendere riguardava un avviso di accertamento che rettificava, ai fini delle imposte sui trasferimenti, i valori di quote immobiliari dichiarate dalle parti in un atto di compravendita.

I giudici di primo grado, investiti della questione, accoglievano il ricorso dei contribuenti nella convinzione che il valore dichiarato nell’atto di compravendita fosse superiore a quello determinato ai sensi dell’articolo 52 del D.P.R. n. 131/86, cosiddetta valutazione automatica.

Questa norma consente, per le operazioni riguardanti gli immobili, l’inibizione alla rettifica del valore o del corrispettivo dichiarati in misura multipla della rendita catastale: settantacinque volte il reddito dominicale risultante in catasto per i terreni, diversi da quelli a destinazione edificatoria, e cento volte per i fabbricati.

In seguito a questa decisione l’Ufficio produceva appello  alla Commissione Tributaria Regionale sostenendo che i beni in contesto erano stati oggetto di denuncia di variazione al N.C.E.U.; pertanto, non potendosi individuare una rendita catastale certa, sarebbe risultata inapplicabile la disposizione sulla valutazione automatica.

La Commissione Tributaria Regionale, per dirimere la questione, decideva di utilizzare i poteri dell’articolo 7, comma 2, del D.Lgs. 546/92, ordinando all’Ute 1) di accertare quali beni fossero dotati di rendita e consentissero la valutazione automatica e 2) di determinare il valore venale degli altri.

Basandosi sulla relazione dell’Ute la commissione decideva la controversia riformando la sentenza di primo grado e determinando in proprio i valori da rettificare.

La Cassazione, investita della questione, ha avuto modo di affermare la correttezza dell’operato dei giudici di merito confermando il legittimo esercizio del loro potere estimativo, anche sostitutivo, che permette di acquisire altri elementi di decisione, seppure non contenuti negli accertamenti dell’Ufficio e non provati.

Viene qui in evidenza la norma del nuovo processo tributario che regolamenta i poteri delle commissioni.

Interessante risulta essere lo studio dell’evoluzione normativa riguardo ai poteri del giudice tributario.

Nell’ambito del vecchio rito processuale, in special modo con le modifiche apportate dal D.P.R. n. 739/81, l’istruttoria del giudice tributario aveva quale scopo il “conoscere i fatti rilevanti per la decisione”.

Accesi dibattiti dottrinali hanno consentito al legislatore di inserire, nella nuova formulazione prevista dall’articolo 7 D.Lgs. 546/92, la precisazione che i poteri della commissione tributaria sono esercitati ai fini istruttori e “nei limiti dedotti dalle parti”.

Il chiarimento sulla portata di questa modifica è sottolineato dalla Relazione Ministeriale di accompagnamento alla norma, la quale conferma che si è attenuata “la natura tipicamente inquisitoria del processo tributario, in relazione al maggior spazio lasciato all’impulso di parte e soprattutto al venir meno della funzione assistenziale prima riconosciuta ai giudici tributari e ora soppiantata dall’obbligo delle parti private di munirsi dell’assistenza tecnica”.

In questo senso si esprime anche la Circolare ministeriale n. 98/E del 1996 che, commentando l’articolo 7 del nuovo processo tributario, afferma: “Si precisa che rispetto alla previgente disciplina normativa, che non limitava l’esercizio dei poteri istruttori delle Commissioni tributarie, la nuova disposizione riduce l’esercizio stesso ai soli casi di indagine dei fatti dedotti dalle parti”.

Viene quindi esclusa la funzione “assistenziale” dei poteri istruttori.

Essi hanno, invece, la funzione di verificare le allegazioni delle parti al fine di permettere una compiuta valutazione.

Il giudice non avrebbe alcun potere di sostituire o integrare la motivazione dell’Ufficio poiché la delimitazione della materia del contendere è data proprio dalla motivazione dell’avviso di accertamento e dalle domande sottoposte al giudice dal ricorrente.

I poteri che l’articolo 7 del nuovo rito processuale-tributario ha conferito alle commissioni tributarie sarebbero esercitabili, pertanto, solamente “nei limiti dei fatti dedotti dalle parti” senza ulteriori estensioni.

La conclusione è confermata anche analizzando la questione per altro verso.

L’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992 dispone “I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile.”

L’articolo 115, primo comma, del codice di procedura civile è così formulato: “Salvi i casi previsti dalla legge il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero”.

Poiché la norma non è incompatibile con quelle previste dal nuovo processo tributario appare in tutta la sua evidenza che il giudice non possa  assumere proprie prove sulle quali fondare la decisione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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