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Dalla rivista “Il Fisco” n. 13/2004

 

 

La trasformazione di comunione d’azienda in società di capitali sfugge all’imposta di registro

 

Di Alberto Buscema

Dottore Commercialista in Padova

 

 

Con il D. Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, è stata data attuazione alla legge delega 3 ottobre 2001, n. 366, di riforma del diritto societario.

In particolare, ai fini che qui interessano e propedeutici all’analisi tributaria dell’istituto, il decreto legislativo dà corpo  ai principi espressi dall’articolo 7, comma 1 lettera b) della delega, in forza del quale la riforma della trasformazione disciplina “possibilità, condizioni e limiti della trasformazione”.

Le innovazioni introdotte riguardano numerosi aspetti dell’operazione qui trattata; quello di maggior rilievo appare l’ampliamento dei destinatari che hanno accesso a questo istituto.

La trasformazione non riguarda più solo le società, come  si leggeva nel titolo della sezione I, libro V, titolo V, delle vecchie disposizioni del codice civile, e nell’articolo 2498 “Trasformazione in società aventi personalità giuridica”; i nuovi articoli 2500-septies e 2500-octies del codice civile prevedono che anche i consorzi, le società consortili, le società cooperative, le comunioni d’azienda, le associazioni non riconosciute e le fondazioni possano trasformarsi in società di capitali, e viceversa.

Quindi possono trasformarsi in società di capitali non solo gli enti ma anche situazioni di contitolarità di azienda, che si verificano quando il diritto di proprietà del bene azienda spetta a più soggetti.

Le vicende più comuni che possono dare origine ad una comunione d’azienda risultano essere il risultato di:

-          -          eredità, quando a causa del decesso del proprietario dell’azienda succedono più persone chiamate pro-quota all’eredità del de cuius;

-          -          donazione, contratto per effetto della quale più persone ricevono il diritto di proprietà;

-          -          previsione legale, regolamentata dall’articolo 177, comma 1 lettera d), del codice civile nell’ambito del regime patrimoniale tra coniugi.

E’ importante evidenziare che la comunione d’azienda può presentare aspetti statici e aspetti dinamici.

Da un punto di vista dinamico la comunione d’azienda tra coniugi, per effetto della comunione legale, continua a restare tale nonostante la gestione in comune dell’azienda.

Diversamente, nei casi di comunione ereditaria o da donazione si può sostenere che una comunione d’azienda resti tale solo se i contitolari mantengono lo scopo del godimento dell’universitas rerum (aspetto statico). Se l’azienda viene usata per svolgere un’attività in comune (aspetto dinamico) si origina una società di fatto.

Di conseguenza la comunione d’azienda perde le sue caratteristiche originarie per “trasformarsi” in società di persone, con conseguente applicazione delle norme civilistiche che si riferiscono a questo tipo di società.

Questa triplicità di aspetti, che permette la permanenza della comunione nonostante la gestione, oppure una comunione di solo godimento o la nascita di una società di fatto, la si evince dalla lettura degli articoli 177, comma 1 lettera d), e dagli articoli 2247 e 2248 del codice civile, che trattano rispettivamente della comunione legale, della società e della comunione a scopo di godimento, così come autorevolmente interpretati dalle sentenze della Cassazione.

Riassunto così il nuovo assetto giuridico della trasformazione e chiarite le origini e i confini della comunione d’azienda si può procedere all’esame della normativa sull’imposta di registro, che presenta una evidente dimenticanza.    

Abbiamo visto che il legislatore ha ampliato il perimetro di applicazione delle disposizioni sulla trasformazione; ma nell’ambito dell’imposta di registro ha dimenticato di aggiornare le disposizioni che ne regolano la tassazione.

La conseguenza è che dal 1° gennaio 2004, data di entrata in vigore delle nuove disposizioni sul diritto societario, non tutte le trasformazioni saranno assoggettate a questa imposta: il passaggio da comunione di azienda a società di capitali non è tassabile.

Questa è l’unica conclusione alla quale si giunge accostando la lettura delle norme societarie a quelle dell’imposta di registro al fine di verificare quali disposizioni impositive sono da applicare alle nuove operazioni di trasformazione.

Dal breve riepilogo dell’evoluzione normativa si riesce a comprendere come si sia verificato il vuoto impositivo.

Abbiamo già avuto modo di vedere che il diritto societario in vigore fino al 31.12.2003 faceva riferimento solo alle  trasformazioni “di società”.

In particolare l’articolo 2498 del codice civile trattava esclusivamente della “Trasformazione in società aventi personalità giuridica”, cioè società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata.

Nonostante la mancanza di una disposizione esplicita, dottrina e giurisprudenza avevano ritenuto che fosse possibile anche la trasformazione di tipo inverso, cioè da società di capitali a società di persone; operazioni di questo tipo erano, quindi, comunemente ammesse.

Le norme di diritto societario appena entrate in vigore qualificano quale trasformazione non solo la trasformazione da società di persone in società di capitali, ma anche da consorzi, società consortili, comunioni d’azienda, associazioni riconosciute e fondazioni in società di capitali e viceversa.

Il testo dell’imposta di registro non ha, invece, subito alcun assestamento; prima dell’entrata in vigore del nuovo diritto societario le sue disposizioni riuscivano ad incidere tutti gli atti di trasformazione, poiché riguardavano solo le società.

Dal 1° gennaio 2004, invece, non tutte le trasformazioni  scontano l’imposta di registro.

Continueranno ad essere incise solo quelle relative agli atti di società ed enti mentre la trasformazione della comunione d’azienda in società di capitali sfugge all’imposta.

Infatti l’articolo 4 della tariffa I, allegata al D.P.R n. 131/1986, fa ancora riferimento agli “Atti propri delle società di qualunque tipo ed oggetto … e degli enti diversi dalle società”.

In particolare, il I° comma, lettera c), tratta delle “altre modifiche statutarie, comprese le trasformazioni ….”

Non vi sono altre disposizioni rinvenibili nella tariffa che trattano della trasformazione.

E’ di tutta evidenza come non sia possibile considerare quale atto proprio della società o dell’ente quello adottato dai comproprietari di una azienda al fine di trasformarsi in società: la comunione non è né società né ente.

Questa semplice osservazione impedisce di procedere nella lettura della norma poiché non riferibile alla comunione d’azienda.

Volendo comunque procedere ci si scontrerebbe con il contenuto della lettera c) dello stesso articolo, che fa riferimento alla trasformazione; oltretutto considerandola solo quale modifica statutaria, come era giusto fosse nel passato.

Non c’è alcuno statuto in una comunione d’azienda.

Lo statuto è un documento che nelle società e negli enti contiene le norme relative al loro funzionamento.

Inoltre l’ente e la società sono soggetti di diritto; la comunione d’azienda è diritto sul bene spettante a più soggetti.

L’obiezione più spontanea, per avversare il vuoto impositivo così prospettato, potrebbe essere quella di assoggettare all’imposta l’atto considerandolo quale costituzione di società  con conferimento d’azienda.

Ma questa interpretazione non può essere accettata.

Questa teoria era autorevolmente sostenuta in passato da Griziotti che, ai fini dell’imposta di registro, argomentava sulla necessaria indagine della funzione economica dell’atto.

Le interessanti teorie di Griziotti,  superate dalle nuove precisazioni normative, tendevano ad equiparare  la tassazione di differenti istituti giuridici che economicamente risultavano equivalenti.

Questa scuola di pensiero sosteneva che, nell’imposta di registro, il criterio da adottare per determinare il contenuto degli atti deve fare riferimento a principi e concetti economici.

La preminente rilevanza all’operazione economica corrispondente ad un determinato negozio giuridico era giustificata, secondo l’autore, dal fatto che sarebbe risultato iniquo poter tassare diversamente due atti che producessero risultati economicamente equivalenti ma aventi differenti effetti giuridici.

Se si fossero considerati semplicemente gli effetti giuridici vi sarebbe stata una evidente distorsione applicativa del principio di capacità contributiva.

Nello stesso senso concludeva lo Jarach sostenendo che le imposte di registro, applicate in ragione della capacità contributiva, hanno come oggetto atti di natura economica.

L’imposta andrebbe quindi applicata secondo la natura degli effetti economici e il loro valore.

Atti economici sostanzialmente identici, anche se rivestono forme giuridiche diverse, debbono essere sottoposti ad identico tributo per il principio di uguaglianza.

Cosicchè per assoggettare ad imposta un atto giuridico non nominato nella tariffa si rende necessario ricercare quale sia in concreto la sua natura economica e quindi identificare l’atto economico al quale corrisponde.

Solo aderendo a questa teoria si potrebbe sostenere che gli effetti della trasformazione della comunione di azienda in società di capitali ricalcano quelli del conferimento.

Ma l’acceso dibattito originato alla fine degli anni trenta ha spinto il legislatore a precisare la portata della norma allora vigente.

Attualmente, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, si considerano rilevanti gli effetti giuridici  prodotti dall’atto così come si evincono dalla volontà delle parti espressa nel documento.

Il principio lo si ricava dalla lettura dell’articolo 20 del D.P.R. n. 131/1986, ai sensi del quale “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente.”

C’è, quindi, uno stretto collegamento tra gli effetti civilistici prodotti dall’atto e l’applicazione dell’imposta di registro.

L’aggiornamento del panorama civilistico di riferimento non può portare ad ignorare che l’operazione in questione non è più qualificabile quale conferimento ma quale trasformazione.

Quindi, poiché ai sensi dell’articolo 23 della Costituzione “nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”, si viene a creare un vuoto impositivo colmabile solo da un espresso intervento del legislatore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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