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Dalla rivista  “Il Fisco” n. 12/2003

 

 

 

La simulazione nell’imposta di registro.

Dubbi sulla costituzionalità di parte dell’art. 38 D.P.R. 131/1986

 

Di Alberto Buscema

Dottore Commercialista in Padova

 

 

Premessa

In diritto tributario lo studio degli effetti della simulazione, istituto regolamentato dalle norme del diritto civile, è di estremo interesse poiché idoneo a trarre in inganno l’amministrazione finanziaria sulla reale capacità contributiva da incidere.

E’ sufficiente scorrere le sentenze della giustizia tributaria per rendersi conto della frequenza con la quale viene utilizzato l’accordo.

Lo stesso legislatore, consapevole del fenomeno, si è preoccupato di formulare norme al fine di arginare i tentativi di elusione legati all’utilizzo di questo strumento, come risulta dalla formulazione dell’articolo 26 del T.U. dell’imposta di registro, oppure di disciplinare l’attività procedurale, come si rileva dall’articolo 37 comma 3 del D.P.R. 600/1973 in tema di accertamento delle imposte dirette.

In questa sede la trattazione si limiterà ad affrontare la tematica della simulazione nelle imposte di registro, evidenziando i problemi interpretativi che sorgono nell’utilizzazione delle norme previste per contrastare l’utilizzo di tali stratagemmi.

 

Il profilo civilistico della simulazione

Il codice civile tratta l’argomento nel libro quarto, delle obbligazioni, titolo II°, dei contratti in generale, capo X, “della simulazione”, agli articoli 1414 e seguenti.

Si ha simulazione quando si vuole esteriorizzare un negozio giuridico che non corrisponde alla reale volontà delle parti; un eventuale secondo accordo, segreto, conterrà le reali pattuizioni che le stesse parti hanno voluto porre in essere.

In sostanza i contraenti si accordano per ingannare i terzi circa il negozio che hanno inteso stipulare facendo apparire una realtà diversa da quella effettiva.

Dal punto di vista civilistico il contratto simulato non produce effetto tra le parti mentre resta valido, purché possibile, lecito, determinato o determinabile e nelle forme stabilite dalla legge, l’accordo dissimulato.

Il codice civile offre tutela ai terzi in buona fede, cioè all’oscuro della diversa pattuizione stabilita dai contraenti, che hanno acquistato diritti dal titolare apparente, rendendo a costoro inopponibile la simulazione.

E’ evidente che il legislatore ha voluto salvaguardare coloro che, inconsapevoli della simulazione, hanno fatto affidamento sulla situazione giuridica apparente.

La stessa forma di tutela è accordata ai creditori in buona fede del titolare apparente, mentre è previsto che i creditori del simulato alienante possano far valere la simulazione, e siano preferiti ai creditori chirografari del simulato acquirente, se il loro credito è anteriore all’atto simulato.

In ambito civilistico la prova testimoniale della simulazione non ha limiti:

-          se richiesta dai soggetti sopra indicati, oppure

-          su istanza delle parti se tende a far valere la causa illecita o le condizioni illecite o impossibili del contratto dissimulato.

Sono stati elaborati due concetti di simulazione: relativa e assoluta.

Si ha simulazione relativa quando esiste un contratto dissimulato, inteso, quest’ultimo, quale vero accordo tra le parti.

L’assenza di qualsivoglia accordo diverso da quello apparente, cioè l’inesistenza di un contratto dissimulato, dà luogo alla simulazione assoluta.

Un esempio particolare di simulazione relativa è l’interposizione fittizia di persona in cui si simula, per esempio, l’acquisto di un bene da parte di un soggetto mentre il vero acquirente è un altro.

Un altro esempio di simulazione relativa riguarda il prezzo, che viene fatto apparire in misura diversa da quella effettiva.

Nell’imposizione di registro, che stiamo per affrontare con riferimento all’istituto appena descritto, l’occultazione del corrispettivo è sanzionato dall’articolo 72.

 

I rapporti con l’imposta di registro

La simulazione, nell’imposta di registro, diventa perlopiù rilevante in fase di applicazione dell’imposta.

Oltre all’articolo 26 sopra citato, ampiamente illustrato dalla dottrina e oggetto di un recente intervento della Corte Costituzionale, che ha eliminato la presunzione assoluta della donazione, diviene fondamentale l’analisi degli articoli 20, intitolato “Interpretazione degli atti”, e 38, rubricato “Irrilevanza della nullità e della annullabilità dell’atto”.

La prima delle norme citate è così formulata “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.

Questa norma è il fulcro su cui si basa l’imposta poiché stabilisce l’aggancio ideologico al principio di capacità contributiva. Non si intende più, come nel datato concetto della scuola pavese di Griziotti e Vanoni, che l’imposizione abbia un addentellato negli effetti economici prodotti dall’atto bensì negli effetti giuridici a contenuto patrimoniale.

In tema di simulazione viene spontaneo interrogarsi sui poteri dell’amministrazione finanziaria per provare l’esistenza della simulazione e sulle conseguenze impositive dell’eventuale rinvenimento dell’atto dissimulato.

Risulta, inoltre, necessario comprendere se l’amministrazione finanziaria,  in sede di registrazione del contratto, possa considerare elementi che non risultano dall’atto presentato.

Per cominciare a dare una risposta ai quesiti appena formulati è necessario fare riferimento all’articolo 15 del D.P.R. 131/1986 intitolato “Registrazione d’ufficio”. Questa norma disciplina l’attività dell’ufficio in ipotesi di omessa richiesta di registrazione da parte dei soggetti obbligati.

La disposizione si presta anche ai fini che qui interessano, cioè nel caso di rinvenimento di atti che ricostruiscano la reale intenzione delle parti: i cosiddetti accordi “dissimulati”.

Poiché la simulazione avviene, perlopiù, per mezzo di scritture private non autenticate, qualora abbiano i contenuti degli atti indicati nella Tariffa I, soggetti a registrazione in termine fisso, possono diventare rilevanti ai fini impositivi:

a)              qualora depositati presso pubblici uffici o se l’amministrazione finanziaria ne sia venuta legittimamente in possesso, tramite un sequestro autorizzato dalla legge;

b)              se durante l’accesso, l’ispezione o la verifica  effettuati ai fini di altri tributi l’amministrazione finanziaria ne abbia avuto visione.

Incidentalmente si fa notare che, con l’introduzione dello Statuto del Contribuente, legge n. 212/2000, si restringe l’efficacia di quest’ultima previsione poiché, a norma dell’articolo 12 primo comma, l’accesso, l’ispezione o la verifica fiscale nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole artistiche o professionali sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo. Non è questa la sede per dilungarsi sulla dignità costituzionale e sull’equilibrio di tale norma. Basti semplicemente notare che prima della sua introduzione i verificatori ritenevano di avere libero accesso ai suddetti locali e, quindi, risultava più probabile, rispetto ad ora, il rinvenimento di scritture private.

Tornando alla simulazione diventa adesso necessario impostare la risposta al quesito che ci eravamo posti all’inizio di questo paragrafo sulle conseguenze impositive del rinvenimento dell’atto dissimulato.

Vi sono difficoltà interpretative dovute al fatto che nella simulazione relativa si ha un atto che non produce effetto tra le parti ma ingenera affidamento nei terzi e un altro che rivela la reale volontà.

La lettura dell’articolo 38, del D.P.R. n. 131/1986, rubricato “Irrilevanza della nullità e dell’annullabilità dell’atto” fornisce altri spunti necessari alla risposta. Questa norma prevede che “La nullità o l’annullabilità dell’atto non dispensa dall’obbligo di chiedere la registrazione e di pagare la relativa imposta. L’imposta assolta a norma del comma 1 deve essere restituita, per la parte eccedente la misura fissa, quando l’atto sia dichiarato nullo o annullato, per causa non imputabile alle parti, con sentenza passata in giudicato e non sia suscettibile di ratifica, convalida o conferma”.

In presenza di simulazione le parti presentano alla registrazione l’atto simulato e versano le relative imposte. Qualora l’amministrazione finanziaria scopra, in virtù e con gli accorgimenti previsti dall’articolo 15 del T.U. dell’imposta di registro, il contratto dissimulato dovrà procedere alla registrazione ed esigere l’imposta. Nessuna imposta sembra possa essere chiesta a rimborso per l’atto simulato presentato alla registrazione, poiché così dispone l’articolo 38 esaminato prevedendo che la nullità o l’annullabilità per causa imputabile alle parti non ne consenta la restituzione.

Viene spontaneo interrogarsi sulla costituzionalità di questa norma, nel senso di comprendere se si possa formulare così la norma citata considerando che il nostro sistema impositivo è costruito (anche) sull'articolo 53 della Costituzione.

La giustificazione dell’imposta di registro nell’ordinamento tributario, come abbiamo già visto, è basata sugli effetti giuridici, a contenuto patrimoniale, degli atti soggetti a registrazione.

Orbene ai sensi dell’articolo 1414 del codice civile “Il contratto simulato non produce effetti tra le parti”. Pertanto si potrebbe sostenere l’incostituzionalità della norma poiché non si produrrebbero, in forza delle disposizioni contenute nell’atto, effetti giuridici a contenuto economico.

Il percorso logico appena delineato trova, però, opposizione nel pensiero della Cassazione che nella recente sentenza n. 2698 del 25.02.2002 ha ritenuto non sussistano gli estremi per considerare anticostituzionale l’articolo 38 nella parte in cui impedisce la restituzione dell’imposta in caso di nullità o annullabilità dell’atto per causa imputabile alle parti.

La motivazione del rigetto è così formulata “L’assunto secondo cui l’atto nullo per simulazione assoluta, anche se per causa imputabile alle parti, non comporta alcun trasferimento di ricchezza, trascura di considerare che l’atto medesimo, pur non essendo convalidabile in quanto la legge prevede tale sanatoria soltanto per il negozio annullabile (art. 1444 c.c.), non è privo di effetti verso i terzi e i creditori (artt. 1415 e 1416). L’intenzionalità della nullità o dell’annullabilità implica, d’altra parte, che le parti avevano interesse al compimento dell’atto anche se nullo e quindi ne devono sopportare gli oneri”.

Le argomentazioni utilizzate dai giudici non appaiono convincenti.

Stupisce l’ultimo inciso che afferma l’accollo di oneri poiché le parti avevano interesse a simulare il contratto. Invero l’onere, imposta di registro, si atteggia quale carico tributario dovuto solo in presenza di atti indicativi di capacità contributiva; tale non è un negozio simulato poiché è un atto inidoneo a realizzare uno spostamento di ricchezza.

Il codice civile si propone di fornire una tutela dei creditori e dei terzi per l’affidamento sul negozio apparente. Ma il legislatore tributario ha presente altri parametri, primo fra tutti la capacità contributiva, e l’indice segnaletico è costituito dagli atti indicati nella tariffa.

Così, per esempio, un contratto di vendita immobiliare è sottoposto ad imposizione di registro poiché espressamente previsto quale atto elencato nella tariffa;  se viene dichiarato nullo a causa di una simulazione accertata, non deve essere considerato, ai fini impositivi, l’effetto giuridico che produce nei confronti dei terzi poiché non previsto tra le fattispecie soggette ad imposizione indicate nella tariffa.

In altre parole: poiché ai sensi dell’articolo 38 la discriminante, che giustifica l’imposizione, tra un atto nullo o annullabile sic et simpliciter e un atto nullo o annullabile per volontà delle parti appare essere proprio l’intenzione dei contraenti, non risulta conforme al principio di capacità contributiva incidere l’atteggiamento mentale.

Prevedere una simile ipotesi si scontra con l’articolo 53 della Costituzione poiché nel caso di simulazione non si ha alcuno spostamento di ricchezza, a cagione della mancata produzione di effetti giuridici dell’atto, e viene quindi a mancare quell’indice segnaletico che individua la idoneità effettiva a contribuire ai bisogni dello Stato. Pertanto la legge, nella parte in cui non prevede la restituzione dell’imposta quando l’atto sia dichiarato nullo o annullabile per causa imputabile alle parti, appare incostituzionale.

 

Conclusioni

Nonostante la dottrina definisca la parte dell’articolo 38 sin qui esaminata quale disposizione antielusiva essa appare in realtà troppo distante dalle caratteristiche necessarie affinché una norma possa considerarsi appartenente a quella categoria.

Forse apparirebbe più logico, in tema di intenzionalità alla rappresentazione di una realtà diversa da quella effettiva, prevedere una sanzione specifica per questo tipo di comportamenti salvaguardando così l’interesse dell’erario e la snellezza dei rapporti tributari.

Così come attualmente formulata la norma appare essere fortemente indiziata di incostituzionalità perché slegata dal concetto di capacità contributiva.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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