Dalla
rivista “Il Fisco” n. 22/2006
Aspetti di attualità sulle spese di giudizio
e considerazioni sull’applicabilità
della lite temeraria
Di Alberto Buscema
Dottore Commercialista in Padova
Introduzione
Il 1° marzo 2006 è entrata in
vigore la norma che impone al giudice di indicare esplicitamente nella
motivazione i motivi per i quali ha deciso di compensare le spese
processuali, in tutto o in parte .
Sull’esplicitazione delle
motivazioni ero già intervenuto tempo addietro, nelle pagine di questa
Rivista, e, in quell’occasione, avevo evidenziato che questo obbligo,
espressione di civiltà giuridica, era già ricavabile dal testo di legge
allora in vigore.
Tuttavia la norma veniva
intesa difformemente dalla Corte di Cassazione, che era giunta addirittura
a legittimare la possibilità di compensare le spese processuali anche in
caso di soccombenza totale di una delle parti.
Il nuovo testo di legge
dovrebbe riuscire ad arginare la prassi, pressocché generalizzata, di
disporre la compensazione delle spese “immotivata”; tuttavia credo che sia
importante che si affermi anche l’applicazione di un altro principio di
legge, apparentemente trascurato.
Mi riferisco all’istituto
della lite temeraria, introdotto al fine di dissuadere la coltivazione, la
prosecuzione e la moltiplicazione di liti infondate; il rispetto di tale
istituto comporterebbe lo sfoltimento di parte del contenzioso e potrebbe
ripristinare la corretta funzione della tutela giudiziale.
Questo lavoro ha lo scopo di
evidenziarne l’utilità.
Spese
processuali in cerca d’identità
Vi sono disposizioni, nel
contenzioso tributario, che hanno permesso, come ha avuto modo di
sottolineare la stessa Corte Costituzionale, l’emanazione di atti accertativi
infondati e di farne sopportare le conseguenze economiche al contribuente
malcapitato.
Ci si riferisce alle spese di
difesa che, secondo il testo vigente fino al 21 luglio 2005, dell’articolo
46, 3° comma, del D.Lgs. n. 546/1992, restavano a carico della parte che le
aveva anticipate. Cioè, in questo caso, del contribuente che aveva dovuto
sostenere gli oneri difensivi e che, successivamente all’instaurazione del
contenzioso, si trovava di fronte ad un ripensamento dell’amministrazione
finanziaria, la quale, caducando l’atto, chiedeva la cessazione della
materia del contendere.
E’ stata la sentenza n. 274, del 12 luglio 2005,
della Corte Costituzionale, che, dopo vari e vani tentativi di far valere
l’incostituzionalità di parte della norma, ha finalmente accolto le istanze
dei giudici rimettenti dichiarando l’illegittimità costituzionale, per
violazione dell’art. 3 della Costituzione, del terzo comma dell'art. 46,
del D.Lgs. n. 546/1992, nella parte in cui precludeva ai giudici tributari,
nella declaratoria di estinzione della controversia per cessazione della
materia del contendere, di condannare l’Amministrazione, virtualmente
soccombente, al pagamento delle spese.
Questa decisione, salutata dai
più come dirimente, seppur estremamente importante nei principi, non
avrebbe comunque consentito di ripristinare il corretto equilibrio
processuale.
Infatti, è pur vero che
teoricamente il giudice può condannare una delle parti alla rifusione delle
spese di lite, ma la prassi dimostra che, con frequenza, le spese venivano
compensate senza motivazione, proprio per il principio, esposto di seguito,
stabilito dalla Cassazione che non occorre motivare tale scelta anche nei
casi di soccombenza di una delle parti.
Insomma l’effetto della
sentenza dei giudici delle leggi è quello di rivitalizzare la funzione
dell’articolo 15, del D.Lgs. n. 546/1992, sulle spese del giudizio,
consentendo al giudice tributario la sua applicazione.
Quindi, qualora
l’amministrazione finanziaria, trascinata in processo, rinunci al giudizio,
ritrattando l’atto emesso, il giudice deve decidere sulle spese di
giudizio.
Ma, come dicevamo all’inizio,
la disposizione sulle spese di giudizio trova(va) una strana applicazione
da parte della giurisprudenza dominante.
La compensazione veniva ammessa anche nei casi di
vittoria di una delle parti, senza che fosse specificato in sentenza il motivo
che induceva i giudici a tale determinazione.
Si legga, per esempio, la
sentenza n. 18037 del 9.9.2005:
“Non avendo i
giudici di merito posto le spese di giudizio a carico della parte
vittoriosa (nella specie, il Notaio), dovrebbe addirittura escludersi la
stessa possibilita' di un sindacato di legittimita' della pronuncia,
sindacato che deve ritenersi circoscritto alla violazione della regola
secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte
totalmente vittoriosa, secondo un orientamento consolidato di questa Corte
(Cass. n. 14576/1999, n. 14023/2002, n. 13098/2003, n. 18236/2003, n.
23258/2004). Ove si volessero considerare ammissibili le proposte censure,
va puntualizzato che e' certamente ius receptum il principio, piu' volte affermato
(Cass. n. 5413/1987, 1898/2002,
14095/2002, 8210/2003, n. 18236/2003, n. 23258/2004), secondo cui la
valutazione dei giusti motivi, in considerazione dei quali si puo'
pervenire alla compensazione delle spese di giudizio, e' affidata al potere
discrezionale del giudice del merito ed il relativo esercizio non esige specifica motivazione
e puo' essere esercitato anche
nei confronti della parte totalmente vittoriosa. Essendo quindi
espressione di un potere discrezionale attribuito dalla legge, tale scelta
e' insindacabile in sede di legittimita', salvo il caso in cui la
motivazione sia riferita all'indicazione di ragioni palesemente illogiche,
tali da inficiare, per la loro inconsistenza, lo stesso processo formativo
della volonta' decisionale espressa sul punto (Cass. n. 5104/1985, n. 5607/1997, n. 5988/2001, n. 16012/2002,
n. 8210/2003, n. 23258/2004)”
Insomma, per la Corte di Cassazione si potevano compensare le spese anche in
presenza di una parte totalmente vittoriosa e senza esplicitarne le motivazioni.
Una parentesi
per approfondire le possibili origini di tale orientamento
Un altro motivo di tale strano
criterio della ripartizione delle spese processuali si può, forse, evincere
da un’altra sentenza.
Questa, la n. 8540 del 22 aprile 2005, della Cassazione
civile, facendo leva sul disposto costituzionale della ragionevole durata
dei processi, stabilisce che
l’omissione della motivazione sulla compensazione delle spese
sarebbe necessaria e non sarebbe consentita altra interpretazione “se non al prezzo dell’accrescimento
delle impugnazioni delle decisioni, aventi ad oggetto anche soltanto queste
statuizioni, con i conseguenti e immaginabili effetti inflattivi in ordine
al numero dei processi (già particolarmente elevato fino ai limiti di
guardia) e ai costi collettivi sempre più elevati”.
Questa incredibile motivazione sacrifica il diritto di
difesa, anch’esso costituzionalmente garantito, a favore di una supposta
infrazione del principio di ragionevole durata dei processi. Cioè sacrifica
il diritto di difesa a priori, prima
che si manifestino problemi di
durata dei processi.
Questa lettura non appare conforme al dettato
costituzionale e nemmeno appare una lettura bilanciata delle disposizioni
costituzionali, poiché ne sacrifica irrimediabilmente altre, che
elencheremo di seguito.
Inoltre appare irragionevole.
Quindi il disequilibrio nell’applicazione dei valori
costituzionali è evidenziato:
1)
dal
sacrificio di un valore (diritto di difesa) rispetto all’altro
(durata ragionevole dei processi);
2)
dalla irragionevolezza di una impugnazione
preclusa solo in tema di statuizione di compensazione delle spese
processuali. Nel nostro sistema processuale ogni parte della decisione può
essere impugnata, non essendo ragionevole che le altre parti della sentenza
lo possano essere ma non quella sulla decisione di compensare le spese
immotivatamente ;
3)
dall’ulteriore sacrificio di valori
costituzionali, poiché l’articolo 111, comma 6, della Costituzione,
stabilisce l’obbligo generalizzato di motivazione dei provvedimenti
giurisdizionali; la legge sulle spese processuali, stabilisce la
possibilità di dichiarare la compensazione in presenza di giusti motivi,
che il giudice deve individuare per giustificare la sua decisione, e quindi
esporre in sentenza come dimostrato sopra a commento dell’articolo 111
della Costituzione.
Quindi non è una bilanciata lettura di disposizioni
costituzionali se appare irragionevole, affossa il diritto di difesa (art.
24 Costituzione) ed elimina l’obbligo di motivazione (art. 111, comma 6,
Costituzione) al fine di impedire un’”eventuale”
lunghezza del processo.
Insomma, che senso ha intendere la ragionevole durata
dei processi, stabilita nell’ambito di una cornice di “equo processo”, con
la menomazione dei diritti di una parte e la soppressione di un elemento
fondamentale della sentenza, quale è la motivazione?
Di nuovo
sulle spese processuali
Al di là di queste considerazioni di ordine
Costituzionale, ciò che conta è comunque notare che, per la giurisprudenza dominante,
si può concludere un giudizio compensando le spese ed evitando di spiegarne
le motivazioni.
A questo punto è ovvio che, se così fosse applicato
l’articolo 92 c.p.c., si sarebbe di fronte ad una norma senza tutela, una
norma vuota. Nessuno potrebbe entrare nel merito di una decisione che la Corte di Cassazione ha
definito discrezionale e quindi non motivabile.
Inaspettatamente il
legislatore ha provveduto a chiarire
definitivamente la questione
Il parlamento, in data 21 dicembre 2005, ha approvato una
legge, la n. 263 del 28.12.2005, che innova le disposizioni del processo
civile ponendo fine a questo tipo di lettura della norma introducendo,
all’articolo 2, la riformulazione del secondo comma dell’articolo 92 c.p.c.
“Se vi è soccombenza reciproca e
concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella
motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le
spese tra le parti".
Siamo quindi giunti ad
ottenere un ulteriore strumento di civiltà giuridica.
Il mutamento di panorama
giuridico potrebbe, a questo punto, essere ricondotto alla sua originaria
ratio se trovasse piena applicazione anche l’istituto della temerarietà
della lite in ambito tributario.
L’articolo 97 del codice di
procedura civile così dispone: “Se
risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala
fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna,
oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche
d’ufficio, nella sentenza”.
La giurisprudenza tributaria
ha dichiarato applicabile tale istituto al processo tributario: si vedano a
tal proposito, tra le altre, la sentenza n. 1082, del 5.2.1997, della Corte
di Cassazione; la sentenza n. 297, del 17.04.2000 della Commissione tributaria
Provinciale di Foggia sez. IX; la sentenza n. 31, del 28.03.2003, della Commissione
Tributaria provinciale di Milano, Sez. XXXVI.
Sul
concetto di lite temeraria e sui benefici della sua applicazione
La lite temeraria si manifesta
quando, in ambito processuale, una delle parti si comporti con mala fede o
colpa grave.
Il concetto di "temerarietà", così come delineato dalla giurisprudenza,
comprende sia la "malafede",
intesa quale coscienza di operare slealmente e/o consapevolezza di avere
torto o di procedere contro le regole della forma e del tempo degli atti,
che la "colpa grave",
definita quale mancata diligenza nella preventiva valutazione della
conformità dello strumento processuale al principio di onestà o di
sussistenza del diritto fatto valere.
Questi comportamenti conducono (rectius:
dovrebbero condurre)non solo alla soccombenza ma anche al risarcimento dei
danni causati alla controparte.
Ecco l’ultimo tassello per completare il quadro
iniziale al quale ci riferivamo.
Con l’approvazione della nuova legge sulla
enunciazione dei giusti motivi che comportano la compensazione delle spese
si è giunti a prevedere una tutela efficace
per la parte economicamente più debole del processo tributario, e
cioè il contribuente, ma non si è
ancora giunti alla tutela di entrambe le parti, che il legislatore ha
efficacemente delineato con la previsione dell’articolo 96 del codice di
procedura civile.
Ora, la prima disposizione alla quale abbiamo fatto
riferimento, sulla cessazione della materia del contendere, obbliga
l’amministrazione finanziaria ad emettere atti accertativi con l’adozione
della massima attenzione, poiché non potrà più procedere al loro ritiro -
come purtroppo frequentemente è accaduto in passato - in pendenza del
giudizio senza sopportarne le conseguenze.
Infatti qui si innesta la seconda disposizione, quella
recentemente modificata dalla legge: il giudice non potrà più emettere
sentenze di compensazione delle spese “arbitrariamente”
ma dovrà motivare obbligatoriamente la sua decisione. Quindi, ordinariamente,
l’amministrazione finanziaria dovrà temere la condanna a fronte del ritiro
degli atti accertativi in pendenza del giudizio, e, entrambe le parti,
amministrazione e contribuente, dovranno in generale essere molto
scrupolosi rispettivamente quando emanano gli atti accertativi e quando li
impugnano.
Ma soprattutto l’applicazione delle norme sulla
temerarietà della lite condurrebbero ad una corretta ricollocazione della
funzione del giudice, che dovrebbe occuparsi di questioni fondate e serie e
non essere obbligato a perdere tempo, e far perdere denaro allo Stato, per
questioni infondate.
Conclusioni
L’adozione completa di queste norme, così
intelligentemente costruite nel tempo da esperti giuristi, è in grado di:
1) riaffermare il necessario prestigio e il dovuto rispetto dei giudici,
investiti finalmente di questioni serie e chiamati autorevolmente ad
esprimersi su vertenze vere e non più meramente tattiche; 2) contribuire
all’imparzialità dell’amministrazione
finanziaria, costituzionalmente garantita e dichiarata recentemente dallo
Statuto del contribuente, ma non sempre riscontrata; e 3) garantire,
finalmente, anche al contribuente l’utilizzo di strumenti di effettiva
tutela.
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