Da
“Il Fisco” n. 33/2006
D.L. n. 223/2006
Profili di incostituzionalità della norma
sul tracciamento delle movimentazioni finanziarie riguardanti i
professionisti
Di Alberto Buscema
Dottore Commercialista in Padova
Introduzione
Il D.L. 4 luglio 2006, n. 223,
convertito, con modificazioni, in L. 4 agosto 2006, n. 248 ha
introdotto diverse norme che sovvertono equilibri giuridici delicati,
specialmente nel settore tributario.
I suggerimenti della migliore
dottrina sulla fragilità degli equilibri tributari, che dovrebbero essere
tendenzialmente stabili e non essere continuamente modificati per esigenze
di cassa, sembrano essere rimasti ancora una volta inascoltati,
provocando distorsioni applicative e incertezze.
Il nuovo decreto contiene numerose
norme che mirano esclusivamente a rinforzare i conti dello Stato, senza
preoccuparsi dell’equilibrio turbato nel sistema tributario. Come, per
esempio, le modifiche apportate allo strumento “studi di settore” o a
quello delle “società non operative”. Stupisce che fino a ieri gli studi di
settore fossero applicabili con la regola del due su tre, poiché non ci si
fidava completamente dello strumento statistico, e ora invece lo si
utilizzi per ogni periodo d’imposta (nonostante non siano stati apportati
elementi aggiuntivi rispetto al passato per contribuire alla precisione del
calcolo). Così come si sono elevati i coefficienti di redditività dei
cespiti applicabili alle società di comodo, perdendo il contatto con la
realtà relativa alla percentuale di remunerazione dei cespiti ricavabile
dai dati di mercato.
Tuttavia ci troviamo, ora, di fronte
alle norme e bisogna comprendere come e se si armonizzino con il nostro
sistema giuridico.
In questi giorni sono molti gli
spunti di incostituzionalità che sembrano viziare vari aspetti del decreto:
il mancato requisito dell’urgenza, la retroattività di alcune norme ecc.
Anche la previsione della
tracciabilità delle transazioni finanziarie professionali non ne è immune,
come si dimostrerà di seguito.
La verifica deve cominciare proprio
dalla conformità della norma ai principi supremi della Costituzione.
La tracciabilità dei pagamenti
e il contrasto con l’articolo 3 della Costituzione
L’articolo 35, comma 12, del decreto
in esame aggiunge il seguente comma, all’articolo 19, del D.P.R. 29
settembre 1973, n. 600:
«I soggetti di cui al primo
comma sono obbligati a tenere uno o piu' conti
correnti bancari o postali ai quali affluiscono, obbligatoriamente,
le somme riscosse nell'esercizio dell'attivita' e dai quali
sono effettuati i prelevamenti per il pagamento
delle spese.».
L’intitolazione dell’articolo 35 è “Misure
di contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale”.
La disposizione in esame, quindi,
impone l’utilizzo del conto corrente allo scopo di contrastare l’evasione
fiscale.
Tuttavia, nonostante la titolazione
dell’articolo 35, la norma non riguarda tutti i contribuenti, ma si
riferisce esclusivamente ad artisti e professionisti, escludendo
dall’obbligo gli altri.
Proprio questo aspetto discriminante
è oggetto delle presenti riflessioni sulle possibili conseguenze sul piano
della incostituzionalità della norma per violazione dell’articolo 3 della
Costituzione, cosiddetto “principio di uguaglianza”.
Lo scopo della norma, introdotta dal
Decreto Bersani, è di monitorare i conti correnti dei citati soggetti per
scoprirne eventuali anomalie di gestione, possibile indice di evasione.
L’idea di fondo sembra essere quella
di una società in cui tutte le transazioni avvengano con moneta
elettronica: in un tale mondo l’evasione diventerebbe quasi impossibile. Ma
il decreto non ci proietta in una tale realtà. Anche dopo la sua
emanazione il denaro contante continua ad essere un mezzo di
pagamento. Quindi il professionista che vuole omettere di dichiarare i suoi
compensi può continuare a farlo senza lasciare tracce nei conti correnti.
Quindi, da questo punto di vista, la norma non raggiunge l’obiettivo
prefissato.
Tuttavia, attraverso il monitoraggio
dei movimenti finanziari si può evidenziare il finanziamento dell’attività
professionale con soldi personali. Ciò accade quando i mezzi finanziari
ricavati dall’attività risultano essere insufficienti a far fronte alle
spese. Di conseguenza si attinge dalle riserve finanziarie personali ben
identificabili (smobilizzazione di titoli, conti correnti ecc.) oppure
all’immissione di denaro contante.
Una tale situazione può indicare
una evasione poiché, se non si attinge a fondi precedentemente
presenti nei conti correnti, e in assenza di idonee spiegazioni
(vendita di beni personali, donazioni ecc., adeguatamente documentate)
significa che il finanziamento può essere avvenuto con compensi incassati
“in nero”.
In questo modo si porrebbero le basi
per utilizzare lo strumento presuntivo per contrastare l’evasione.
Se questo è lo scopo della
disposizione, essa appare irragionevole e mostra profili di sproporzione
tra il mezzo e il fine. E come tale censurabile dalla Corte Costituzionale,
per violazione dell’articolo 3 della Costituzione.
Lo studio della giurisprudenza della
Corte Costituzionale permette di evincere che il giudizio di ragionevolezza
è basato sull’analisi dello scopo della legge – in questo caso evidenziato
nel contrasto all’evasione - e mira a valutare l’adeguatezza della
disposizione rispetto al fine.
Orbene, appare eccessivo l’utilizzo
del mezzo adottato. Infatti, non vi è dubbio che i soggetti che hanno evaso
le imposte precedentemente, tramite la occultazione dei compensi, non
trovano alcun ulteriore sprone da questa norma rispetto al passato. Dal
punto di vista “punitivo” sono rimaste inalterate le disposizioni penali
nonché le sanzioni amministrative-tributarie. La norma ha l’effetto
dissuasivo nella parte in cui, costringendo all’uso dei soli conti correnti,
impedisce il finanziamento “per cassa” dell’attività. In altre parole, il
professionista che non riesce a far fronte, con i mezzi finanziari
conseguiti dalla propria attività, alle spese professionali è costretto a
versare nel conto soldi personali: la misura di tali versamenti è in grado
di far presumere la presenza di compensi incassati “in nero”.
E qui si innesta la prova sulla
sproporzione del mezzo rispetto al fine.
Sarebbe stato molto più semplice, e
meno oneroso, instaurare il regime di contabilità ordinaria, cioè
l’utilizzo dei conti riguardanti le movimentazioni finanziarie, per tutti
gli artisti e professionisti. In questo modo, il semplice controllo del
conto (ragionieristicamente inteso) “titolare” avrebbe potuto segnalare
agevolmente tutti i movimenti di versamento avvenuti per cassa da
parte del professionista.
Funzionamento del conto
titolare
Come è noto il regime di contabilità
ordinaria dei professionisti ha la caratteristica di integrare le
operazioni produttive di componenti positivi e negativi di reddito con le
movimentazioni finanziarie (art. 3, comma 2, del D.P.R. 9 dicembre 1996, n.
695).
Contropartita dei conti di costo e di
ricavo sono, generalmente, i conti “cassa” e “banca”.
Tuttavia, poiché l’attività professionale
ha quale destinatario delle somme introitate il suo titolare, si è reso
necessario l’istituzione del conto “titolare”, per segnalare le somme
prelevate dall’attività oppure quelle versate.
Normalmente, o comunque a regime dopo
i primi anni di professione, il professionista dovrebbe prelevare le somme
che si generano dallo svolgimento dell’attività e che residuano dopo il
pagamento delle relative spese.
Meno frequentemente accade che sia lo
stesso professionista che deve finanziare la propria attività versando
risorse personali o precedentemente prelevate. Logica vuole che le somme
prelevate definitivamente in periodi d’imposta precedenti siano state
utilizzate per spese personali, per investimenti o depositate in istituti
di credito. Il continuo finanziamento dell’attività professionale con fondi
personali è, quindi, in grado di segnalare l’anomalia. L’eventuale verifica
permetterà di comprendere se le movimentazioni derivano da smobilizzi di
ricchezza accumulata, da altre fonti reddituali oppure sono idonee a
presumere riutilizzo di somme occultate al fisco.
L’utilizzo di somme versate dal
professionista avviene con la scrittura “Cassa o banca a titolare
c/versamento”; i prelevamenti vengono segnalati dal conto “titolare
c/prelevamento”. Il saldo dei due conti “titolare” viene compensato a
fine anno e la differenza segnalerà:
se in dare, cioè “titolare c/prelevamento”, che il
professionista ha attinto dai fondi dell’attività per i suoi scopi
personali;
se in avere, cioè “titolare c/versamento”,
significherà che l’attività è stata finanziata dal professionista per
importi corrispondenti.
Insomma, poiché ordinariamente gli
incassi del professionista derivano dai suoi compensi, qualora questi non
fossero sufficienti a coprire le sue spese, contabilmente si deve rilevare
un versamento del titolare; l’analisi di tale conto avrebbe segnalato
agevolmente l’anomalia, senza bisogno di dover accendere alcun conto
bancario.
Ecco dimostrata la sproporzione del
mezzo rispetto al fine.
Per concludere, sempre insistendo
sulla conformità alla Costituzione dell’articolo in esame, si evidenzia
anche la disparità di trattamento che la norma introduce rispetto ai
contribuenti imprenditori. Pur essendo generali le finalità della norma,
questa si accanisce solo contro i professionisti, recando con sé l’evidente
discriminazione degli stessi rispetto agli imprenditori. Tale
discriminazione non appare in alcun modo giustificabile.
Conclusioni
Le considerazioni sopra riportate
evidenziano che è necessaria una profonda meditazione delle norme, anche
dal punto di vista della loro costituzionalità, prima di procedere alla
loro introduzione. Le disposizioni sulla tracciabilità dei movimenti
finanziari dei professionisti mostrano profili di “eccesso del potere
discrezionale” del legislatore, poiché avrebbe potuto provvedere in maniera
molto meno onerosa nell’approntare efficaci sistemi di controllo. Inoltre,
la norma che riguarda i professionisti viola il principio di eguaglianza se
posta a confronto con le norme che riguardano gli imprenditori che, pur
tenuti alle scritture contabili come i professionisti, non sono
assoggettati al monitoraggio dei loro movimenti finanziari. Insomma, non
solo si sarebbe potuto agire con strumenti meno costosi e vincolanti
(si pensi alle difficoltà che comportano pagamenti di modeste cifre o al
tempo impiegato nel portare in banca, nel periodo di transizione della
norma, anche le somme incassate in contanti), ma le disposizioni appena
approvate operano dei distinguo tra contribuenti che non appaiono
ragionevolmente giustificate.
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