Da
“Dialoghi di Diritto Tributario” n. 6/2006
Compensazione delle spese processuali: le
valutazioni discrezionali del giudice vanno motivate
Di Alberto Buscema
Dottore Commercialista in Padova
Introduzione
La riforma del processo tributario,
introducendo l’obbligo quasi generalizzato di affidarsi a figure
professionali abilitate all’assistenza del contribuente e limitando di
conseguenza l’autodifesa, aveva l’ambizioso proposito di raggiungere un più
elevato tecnicismo difensivo.
Per controbilanciare questa
esigenza di qualificazione della difesa, che comporta sì maggiore
competenza tecnica ma anche maggiori oneri, si è provveduto a introdurre
l’innovativo principio della soccombenza, istituto che ha la funzione di
porre a carico della parte perdente le spese processuali.
Questa
disposizione ha anche la funzione di confinare la diffusa pratica della
presentazione di ricorsi pretestuosi o dilatori e l’emanazione di atti
accertativi infondati, comportamenti che procurano inutili spese statali e
perdite di tempo.
L’intenzione
di accorciare i tempi della giustizia tributaria dovrebbe infondere fiducia
nel contribuente bisognoso di giustizia ed essere, conseguentemente, uno
degli obiettivi primari di uno Stato efficientemente amministrato.
Si era,
quindi, pensata una disposizione che avrebbe dovuto eliminare i gravosi
carichi lavorativi delle commissioni tributarie e garantire che a fronte di
una “impugnazione corretta”, intesa quale non pretestuosa ma bisognosa di
giustizia, vi fosse il riconoscimento di quanto ingiustamente speso per la
difesa.
Tuttavia
l’ambizioso, quanto equo e condivisibile, proposito si è sbriciolato di
fronte alla (dis)applicazione del principio che numerosa giurisprudenza ha
fatto, ripristinando, così, i vecchi problemi dei ricorsi infondati e degli
atti accertativi pretestuosi, danneggiando economicamente, di conseguenza,
sia lo Stato, che disperde inutilmente risorse, che il contribuente.
La
sistematica elusione del principio della soccombenza, che avviene quando il
giudizio si conclude con la consueta decisione “Spese compensate poiché
sussistono giusti motivi”, è appalesata dalla lettura di numerosissime
sentenze.
Ci si
permette, rispettosamente, di definirla una elusione perché l’istituto
della compensazione dovrebbe essere utilizzato eccezionalmente rispetto
all’ordinario criterio della soccombenza; come tale, dovrebbe essere
adottato con estrema cautela, straordinarietà.
Il
legislatore, infatti, con la disposizione in commento intendeva penalizzare
il soccombente e solo in casi particolari compensare le spese tra le parti.
La pratica,
come dicevamo, ha capovolto il senso della norma.
I
criteri di ripartizione delle spese processuali
Per
comprendere la questione si possono riassumere brevemente i criteri di ripartizione
delle spese processuali.
Queste sono
sostenute, inizialmente e in via anticipativa, dalle parti che devono
difendere le proprie e rispettive ragioni; successivamente (e
ordinariamente), in forza delle disposizioni sul contenzioso tributario mutuate
dal codice di procedura civile, vengono poste a carico della parte
soccombente alla fine del giudizio.
Il principio
della soccombenza è un principio di civiltà (giuridica) che vuole rendere indenne
da oneri colui che ha dovuto difendere le proprie ragioni di fronte alle
ingiuste pretese della controparte, addossando a quest’ultima il peso
economico delle sue scelte.
Questo
principio viene mitigato, sollevando il soccombente dall’onere economico,
in presenza di soccombenza reciproca oppure quando sussistano i
“giusti motivi”.
Per completare il quadro
giuridico di riferimento è necessario citare il concetto di lite temeraria,
che si manifesta quando, in ambito processuale, una delle parti si comporti
con mala fede o colpa grave.
Il concetto
di "temerarietà", così come delineato dalla giurisprudenza,
comprende sia la "malafede", intesa quale coscienza di operare
slealmente e/o consapevolezza di avere torto o di procedere contro le
regole della forma e del tempo degli atti, che la "colpa grave",
definita quale mancata diligenza nella preventiva valutazione della
conformità dello strumento processuale al principio di onestà o di
sussistenza del diritto fatto valere.
Questi comportamenti conducono non solo alla soccombenza ma anche al
risarcimento dei danni causati alla controparte.
Questo quadro
dimostra che nelle norme sulle spese processuali vi è un tracciato
equilibrato nel quale:
il vincitore della lite è sollevato
da ogni onere difensivo, posto a carico del soccombente (c.d. soccombenza);
il litigante in mala fede (e/o con
colpa grave) rifonde alla controparte sia le spese difensive che quelle
processuali e gli ingiusti danni causati (c.d. temerarietà);
infine, in presenza di soccombenza
reciproca o di giusti motivi, la parte vittoriosa e quella soccombente
sopportano le proprie spese di giudizio, restando esclusa ogni rifusione a
favore dell’altra (c.d. compensazione).
La
discrezionalità del giudice nella valutazione dei giusti motivi e l’obbligo
di motivazione
Come abbiamo
visto, i criteri di legge sui quali fondare la decisione di compensare le
spese processuali fanno riferimento, oltre che alla reciproca soccombenza,
ai “giusti motivi”.
L’interprete che si accinge
alla lettura di questa disposizione si attende che le decisioni dei giudici
che dispongono la compensazione delle spese siano accompagnate
dall’esposizione dei motivi e/o delle ragioni per le quali siano stati/e
ritenuti/e giusti/e, così come avviene quando essi espongono le ragioni –
la motivazione - che portano all’accoglimento o al rifiuto delle richieste
avanzate dalle parti.
Invece l’analisi della recente
giurisprudenza della Cassazione dimostra che essa si è arroccata su una
esposizione formalistica, astratta, priva di alcun cenno che permetta di
comprendere le ragioni che hanno condotto alla decisione.
La lettura di
una sentenza della Cassazione, alla quale se ne sono aggiunte molte altre
dello stesso tenore, consente di verificare, concretamente, l’atteggiamento
della giurisprudenza in questo tema.
La Sez. I, civile, con
sentenza n. 12070, del 27 ottobre 1999, ha stabilito che: “…la liquidazione
delle spese rientra nei poteri discrezionali del giudice con due limiti ai
quali il giudice stesso non può sottrarsi: condanna al rimborso delle spese
di giudizio a favore della parte vincitrice e obbligo di una motivazione
immune da vizi logici nell’ipotesi di compensazione totale o parziale delle
spese stesse”.
Fin qui nulla
da eccepire; anzi questa parte della decisione sembrerebbe in linea con le
aspettative dell’interprete.
Purtroppo la
sentenza continua così:
“Entrambi gli
indicati principi sono stati rispettati nella specie avendo il giudice di
merito deciso di compensare fra le parti le spese di giudizio, in
riferimento ai giusti motivi, espressione che, costituendo una valutazione
discrezionale della massima ampiezza, si sottrae al giudizio di
legittimità".
Come si diceva anche la
recente giurisprudenza si è attestata su questi principi e questo è
diventato un orientamento consolidato della Cassazione.
La questione
sulla quale in primis si dissente non sta tanto nella discrezionalità della
valutazione, che è fuori discussione, quanto nella contraddizione dell’argomentazione:
da una parte si impone l’obbligo della motivazione e dall’altra si
considera sufficiente la stereotipata formula “giusti motivi” senza
spiegare quali siano, senza chiarirne il percorso logico.
Di fronte a decisioni così
(im)motivate risulta impossibile comprendere quali ragioni abbiano convinto
i giudici a compensare le spese.
L’applicazione
della disposizione appare in contrasto con i principi che regolano il
processo, primo fra tutti l’obbligo Costituzionale, stabilito dall’art.
111, di motivare adeguatamente i provvedimenti giurisdizionali.
Ferma
restando la chiarezza del precetto Costituzionale, è interessante leggere
il pensiero di alcuna dottrina che commenta l’art. 111:
“La
motivazione deve far risultare che il giudice ha avuto presenti tutte le
ragioni di fatto e di diritto fatte valere dalle parti nel confronto
processuale, assicurando al tempo stesso una base di partenza per il lavoro
che successivamente, ed eventualmente, sarà chiamato a svolgere il giudice
dell’impugnazione, e garantendo l’esigenza di un controllo diffuso
dell’opinione pubblica sull’amministrazione della giustizia”.
Quindi la
funzione della motivazione non ha il solo scopo di permettere un controllo
dell’opinione pubblica sull’amministrazione della giustizia, assolutamente
necessario in uno stato democratico, ma anche la verifica di ciò che è
stato deciso tramite un eventuale giudizio di impugnazione, rimedio
azionabile da chiunque voglia agire a tutela dei propri diritti (art. 24
della Costituzione).
Di fronte a
questa ricostruzione normativa riesce difficile comprendere l’orientamento
della giurisprudenza che abbiamo riferito.
Perché è necessaria la
“motivazione”
I “giusti
motivi” che accompagnano la compensazione delle spese sono frutto della
discrezionalità, intesa quale soggettività valutativa, del giudice.
La legge non
riesce ad indicare in quali casi essi sussistono, essendo praticamente
impossibile elencare tutti i motivi considerati giusti; ecco perché la
disposizione lascia il compito alla sensibilità del giudice.
Tuttavia, pur
se frutto della sua discrezionalità, essi dovrebbero essere elencati per
far comprendere se il percorso seguito dal giudice nella sua valutazione
sia logico, giustificato e coerente con lo svolgimento e la realtà del
singolo giudizio.
In altri
termini, con le osservazioni mosse in queste righe non si vuole obiettare
sulla discrezionalità delle valutazioni del giudice sulla sussistenza dei
“giusti motivi” ma solo rendere possibile il controllo, di cui abbiamo
fatto cenno al paragrafo precedente, sulla correttezza del giudizio, sulla
fondatezza e razionalità della decisione.
Insomma,
sulla sussistenza dei requisiti di legge.
Perchè la discrezionalità del
giudice non equivale affatto alla fanciullesca affermazione “è così perché
lo dico io”, ma è vincolata alla legge e in essa trova il suo fondamento.
Diversamente la
discrezionalità scivolerebbe nell’arbitrio.
Ecco perché qualsiasi
decisione degli organi giudicanti deve essere motivata.
La discrezionalità,
quindi, serve, in questo caso, ad individuare la giustezza dei
motivi: il ragionamento fatto dal giudice per convincersi della sussistenza
dei giusti motivi deve essere espresso in una motivazione logica, non
contraddittoria, coerente.
E’ ovvio, per
portare la questione ai suoi estremi, che non avrebbe senso, e sarebbe
impugnabile, una discrezionalità che concluda “spese compensate perché sono
le cinque e mezza”.
Ma, ferma la
sostanza, se al posto della frase “sono le cinque e mezza” si sostituisse
“ci sono i giusti motivi” si solleverebbe – secondo la Cassazione – da ogni
censura la reale valutazione del giudice, saltando così ogni successiva
valutazione sulla legittimità dell’operato.
Si osservi,
inoltre, che la legge non prevede che il giudice possa semplicemente
decidere sulla compensazione delle spese, nel qual caso le sentenze sin qui
esaminate avrebbero una conseguente logica.
Indicando un
preciso riferimento – i giusti motivi – il legislatore ha sottratto al
giudice una discrezionalità assoluta costringendolo a limitarla alla
verifica e all’indicazione di questi requisiti.
Seguendo
l’orientamento giurisprudenziale sin qui esposto, non vi sarebbe differenza
tra un testo di legge che dispone la compensazione secondo l’assoluta
discrezionalità del giudice e un altro che imponga la sussistenza dei
giusti motivi.
Non potendo
essere ritenuta sufficiente, quale scriminante, la semplice
enunciazione – formale - della loro esistenza.
Motivazione a
“corrente alternata”?
Vi sono alcune
decisioni della giurisprudenza che, nonostante questo orientamento,
espongono compiutamente i giusti motivi.
In questi
casi viene applicato il principio delineato al paragrafo precedente,
avallandolo.
Quindi se il
giudice decide di motivare la sussistenza dei giusti motivi questi
potrebbero essere vagliati in sede di impugnazione.
Qui si
manifesta un’altra illogicità di questa interpretazione: l’esposizione
della motivazione, che come abbiamo visto alcuni riportano e altri non
ritengono necessaria, diventa una scelta arbitraria del giudice.
La facoltà di
scegliere tra l’esporre una motivazione, che si presta alla impugnazione, e
non esporla, evitando tale rischio, non diventerebbe più una questione che
riguarda l’applicazione dei principi di cui agli articoli 111 (motivazione
delle sentenze) e 24 (diritto di difesa) della Costituzione ma
costituirebbe una libera scelta dell’organo giudicante.
Comportando
la violazione del principio di uguaglianza: la stessa vertenza può essere
risolta con una decisione motivata in ordine alla sussistenza dei giusti
motivi, e quindi impugnabile nei casi di inconsistenza o evidente erroneità
del processo formativo della volontà decisionale, oppure con una decisione
che dichiari “la sussistenza dei giusti motivi”, conseguentemente – secondo
la detta giurisprudenza - insindacabile.
Poiché alla stessa situazione
deve conseguire lo stesso trattamento, si può ricavare che
l’interpretazione adottata dalla Cassazione confligge con il dettato
dell’articolo 3 della Costituzione ed è quindi da ripudiare.
Una
sorprendente giustificazione di tale orientamento
La sentenza
n. 8540 del 22 aprile 2005, della Cassazione civile, indica una inaspettata
giustificazione a sostegno del proprio orientamento, volto a celare la
motivazione che induce a pronunciarsi sulla compensazione delle spese
processuali in presenza di giusti motivi.
Secondo la
Corte l’omissione della motivazione sulla statuizione di compensazione
delle spese sarebbe necessaria e non sarebbe consentita altra interpretazione
“se non al prezzo dell’accrescimento delle impugnazioni delle decisioni,
aventi ad oggetto anche soltanto queste statuizioni, con i conseguenti e
immaginabili effetti inflittivi in ordine al numero dei processi (già
particolarmente elevato fino ai limiti di guardia) e ai costi collettivi
sempre più elevati”.
Questa
incredibile motivazione pone, a mio avviso, in secondo piano principi
costituzionali per conseguire un risultato politico.
Non spettano
ai giudici le valutazioni in ordine ai costi sociali dei vari giudizi ma
anzi a loro spetta il rispetto delle norme che garantiscono la difesa e
l’applicazione delle leggi.
L’istituto
della compensazione delle spese processuali, così applicato, genera,
invece, gravi distorsioni, e conseguenti danni sia al contribuente
che allo Stato.
Si pensi,
nella nostra materia, all’acquiescenza del contribuente di fronte ad
atti accertativi infondati che intimano pagamenti modesti.
Queste scelte
diventano forzate, imposte, quando si tratta di evitare un costoso giudizio
che si potrebbe chiudere, nonostante la vittoria, a “spese compensate”.
Inoltre, la mancata rifusione
delle spese al contribuente vittorioso, senza che vengano fornite adeguate
motivazioni, può generare un senso di sfiducia nel fisco, che ha causato un
inutile contenzioso, vanificando, nei fatti, gli sforzi del legislatore
affermati anche nella carta Statuto del Contribuente, in particolare nei
principi di collaborazione e buona fede.
Diversamente
da quanto motivato nella sentenza in esame, che aveva ad oggetto una
vertenza “civile” – ma la cui decisione sulle spese segue identici principi
nel diritto processuale tributario – l’introduzione del principio della
soccombenza nel processo tributario era rappresentata
dall’intasamento delle commissioni tributarie di ricorsi pretestuosi.
In questo
modo anche i contribuenti, per controversie di un certo valore, possono
contare sulle numerose decisioni che comportano la compensazione delle
spese, tornando ad instaurare contenziosi infondati.
I ricorsi
infondati costringono lo stato a spendere soldi infruttuosamente.
E le
commissioni tributarie tornano ad intasarsi di controversie inutili che
producono oltre che danni economici l’allungamento dei tempi per ottenere
giustizia.
Tutti inconvenienti
che si ritorcono sulla collettività e che sarebbe bene evitare.
Le recenti
novità normative pongono fine alla questione
Le
osservazioni sopra riportate sono state accolte recentemente dal
legislatore. La legge n. 263, del 28.12.2005, infatti, innova le
disposizioni del processo civile introducendo, per mezzo dell’articolo 2,
la riformulazione del secondo comma dell’articolo 92 c.p.c., così
disponendo:
“Se vi è
soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente
indicati nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o
per intero, le spese tra le parti".
Questa norma
pare prospettare, finalmente, la fine della diffusa prassi del diniego
motivazionale sulla compensazione delle spese. Il giudice non potrà più
emettere sentenze di compensazione delle spese “arbitrariamente” ma dovrà
motivare obbligatoriamente la sua decisione. Solitamente è la
giurisprudenza a chiarire la portata della legge e a sviscerarne i
contorni, facendo spesso ricorso alla lettura delle norme Costituzionali al
fine di armonizzarne l’interpretazione. Questa volta, non potendo avvenire
diversamente a fronte di una presa di posizione così netta della
Cassazione, è intervenuto il legislatore a “razionalizzare” l’istituto,
fornendo la lettura che appare più sensata.
Questa
modifica contribuirà a cambiare i rapporti tra amministrazione finanziaria
e contribuente verso uno spirito di più leale collaborazione – delineato
nei principi dallo Statuto del Contribuente – poiché non solo la
prima dovrà porre più attenzione all’emanazione di atti accertativi
infondati, ma anche il contribuente dovrà essere più scrupoloso
nell’impugnazione di atti tributari, perché non potrà più contare sulla
diffusa magnanimità sulle spese processuali.
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