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Da “Dialoghi Tributari” n. 2/2008

 

 

I riflessi tributari dell’estinzione della società, anche in pendenza di debiti, ai sensi della riforma societaria del 2004

 

Di Alberto Buscema

Dottore Commercialista in Padova

 

La recente riforma del diritto societario, nell’introdurre importanti innovazioni nel tessuto normativo civile, ha previsto, tra l’altro, una disposizione innovativa che si riverbera pesantemente nel settore tributario.

Si tratta dell’art. 2495 c.c., che disciplina la cancellazione della società di capitali, precedentemente regolamentata dall’art. 2456. La nuova disposizione ha l’effetto di porre fine ad una annosa querelle tra dottrina e giurisprudenza  sull’efficacia della cancellazione della società: sul versante pratico, ovviamente, si seguiva l’interpretazione della giurisprudenza, che aveva stabilito la “sopravvivenza” della società fino all’estinzione di tutti i suoi debiti.

La riforma del diritto societario ha accolto le pregevoli indicazioni della dottrina, disponendo in senso opposto, cioè affermando che la cancellazione della società estingue il soggetto giuridico.

Il testo del nuovo articolo è così strutturato: “Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino a concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società”.

La locuzione normativa “Ferma restando l’estinzione della società”, oltre a determinare la composizione della citata discussione interpretativa, comporta interessanti - e, credo, inaspettate - ripercussioni nel settore della riscossione delle imposte sui redditi, settore che viene letteralmente sconvolto dalla novella.

In particolare risulta inficiata la portata dell’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, che dispone della responsabilità di amministratori, liquidatori e soci di soggetti IRES.

 

La disposizione a presidio degli interessi erariali: l’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973

La ragione di fondo dell’esistenza di questa disposizione tributaria è quella di garantire l’erario da eventuali debiti impagati dai soggetti IRES, nel caso in cui questi fossero proprietari di beni o valori sufficienti ad estinguerli.

A presidio del diritto di credito erariale sono stati posti i rappresentanti dell’ente, perché dotati dei poteri di destinazione delle risorse sociali, e i soci, qualora destinatari di ricchezze sociali.

Più in dettaglio, affrontando la questione relativamente ai liquidatori, l’art. 36 dispone della responsabilità dei liquidatori, relativamente all’IRES non adempiuta in precisi periodi d’imposta, “se (questi - N. d. A.) soddisfano crediti di ordine inferiore a quelli tributari o assegnano beni ai soci o associati senza avere prima soddisfatto i crediti tributari. Tale responsabilità è commisurata all’importo dei crediti di imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti”.

Il legislatore tributario, specificando nel dettaglio la responsabilità di tali soggetti, ha stabilito che questa si origina “per fatto proprio”, cioè per effetto del comportamento di questi rappresentanti della società, qualora distraggano le attività dell’ente collettivo per fini diversi dal pagamento dei debiti tributari. Tali soggetti, cioè, non sono responsabili del debito d’imposta della società - che resta obbligazione dell’ente per una propria manifestazione di capacità contributiva - ma diventano responsabili se distraggono risorse per fini diversi dal pagamento dei debiti fiscali e limitatamente alla misura della distrazione, congiuntamente alla graduazione dei crediti.

In particolare, questi soggetti non sono nemmeno assimilabili alla figura del “responsabile d’imposta”, disciplinata dall’art. 64 del D.P.R. n. 600/1973, e come tali non possono rispondere, in solido, dei debiti d’imposta della società.

Infatti questa disposizione considera responsabile d’imposta “chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento dell’imposta insieme con altri, per fatti o situazioni esclusivamente riferibili a questi, ha diritto di rivalsa”.

I rappresentati dell’ente collettivo non possono essere ricondotti alla figura del responsabile d’imposta per almeno due ragioni:

1) innanzitutto perché non hanno alcuna possibilità di esercitare il diritto di rivalsa, garantito dall’art. 64 del D.P.R. n. 600/1973 ed elemento strutturale dell’istituto. La rivalsa non è, infatti, ipotizzabile: come si vedrà oltre, perché si possa promuovere l’azione di recupero nei confronti del liquidatore, ex art. 36, è necessario che l’azione esecutiva nei confronti dell’ente non sia andata a buon fine. Pertanto, il liquidatore che viene chiamato a rispondere dei debiti impagati dell’ente non potrà mai attivare la rivalsa, proprio perché è già andato a vuoto il tentativo dell’erario e per come è strutturata l’azione di responsabilità nei suoi confronti;

2) inoltre, considerato che detti soggetti rispondono “per fatto proprio”, non si integra nemmeno la parte della disposizione che fa riferimento ai “fatti o situazioni esclusivamente riferibili a questi”.

Da questa sintetica ricostruzione emerge, quindi, che vi sono essenzialmente due obbligazioni differenti in questo rapporto tributario: una in capo alla società e l’altra ai liquidatori.

La prima è una vera e propria obbligazione tributaria, che sorge per effetto del verificarsi del presupposto impositivo; la seconda, pur essendo disciplinata da disposizioni di carattere tributario, è sostanzialmente di natura civilistica e comporta il risarcimento del danno causato dai detti soggetti all’erario, seppure nella specifica misura indicata dall’art. 36 cit.

 

Configurazione delle due diverse obbligazioni a carico di rappresentanti e rappresentati

Per comprendere come l’innovazione posta dal legislatore, nella disciplina della cancellazione delle società di capitali, comporti un nuovo assetto nell’interpretazione dell’art. 36, occorre adesso chiarire il vincolo che lega l’obbligazione tributaria, posta a carico della società, alle responsabilità del soggetto, liquidatore o amministratore, che viola le disposizioni stabilite dall’art. 36 sulla ripartizione dell’attivo.

L’obbligazione dei rappresentanti dell’ente non assume i caratteri del vincolo solidale, poiché, come sopra chiarito, le obbligazioni sono di natura e oggetto distinti; tuttavia l’obbligazione risarcitoria dipende in qualche modo dall’esistenza di un debito dell’ente rappresentato, non adempiuto dal rappresentante.

E’ facilmente dimostrabile l’esistenza di un vincolo, ovvero di una vera a propria dipendenza, che si genera tra l’obbligazione tributaria rimasta inadempiuta e l’obbligazione, per fatto proprio, in capo al soggetto che non ha provveduto al pagamento delle imposte distraendo le attività per altri scopi.

Non vi potrebbe essere alcuna responsabilità del liquidatore se non venisse ad esistenza il debito tributario del soggetto rappresentato; e questo viene (formalmente) ad esistere nel momento in cui viene notificato all’ente l’atto di accertamento.

In altre parole, se la responsabilità di liquidatori e amministratori deriva dal mancato adempimento di una obbligazione civilistica, che sorge a loro carico nel momento in cui distraggono risorse sociali per scopi diversi da quelli di estinzione dell’obbligazione tributaria, è ovvio che nessuna responsabilità potrebbe esservi se questi dovessero ripartire beni in assenza di debiti d’imposta del rappresentato.

Questa responsabilità non coinvolge in alcun modo nell’obbligazione tributaria i soggetti rappresentanti, poiché resta un vincolo esclusivamente a carico dell’ente rappresentato, conseguente ad una sua manifestazione di capacità contributiva; insomma, la responsabilità dell’ente riguarda l’obbligazione tributaria inadempiuta, quella dei rappresentanti ha ad oggetto il danno causato all’erario per non avere destinato al pagamento delle imposte le ricchezze dell’ente.

Quindi i due soggetti coinvolti sono vincolati da due diverse forme di responsabilità, pur rilevanti nei confronti dello stesso soggetto creditore, l’erario.

Giammai potrebbe avvenire che la responsabilità del rappresentante sia contestata tramite un atto impositivo a lui direttamente notificato, senza che questo sia previamente transitato per la sfera giuridica del rappresentato.

Dottrina e giurisprudenza, quasi unanimemente, propendono per il vincolo di dipendenza dell’obbligazione dei rappresentanti rispetto a quella del rappresentato.

La dottrina giunge alla puntuale conclusione che il vincolo di dipendenza che lega il rappresentante al rappresentato si origina solo dopo la formazione del ruolo intestato alla società o all’ente.

Si sostiene, in particolare, l’inestensibilità soggettiva del ruolo di riscossione e che, già storicamente, altra dottrina  avvertiva la necessità che i presupposti specifici della responsabilità dei liquidatori venissero autonomamente accertati attraverso le fasi di un procedimento formale.

Questa conclusione sarebbe supportata a livello normativo dalla combinata lettura degli artt. 36, ultimo comma, il quale richiama l’art. 39, primo comma, dello stesso D.P.R. n. 602/1973.

Questo rinvio dimostrerebbe la necessità che all’avviso di accertamento individuante le specifiche responsabilità di amministratori e liquidatori dovesse fare seguito un autonomo titolo esecutivo.

Non sarebbe possibile rendere esecutivo nei confronti di liquidatori e amministratori un ruolo intestato alla società.

La lettura di queste norme, porterebbe “alla conclusione che l’accertamento e la riscossione nei confronti dei soggetti indicati all’art. 36 richieda sempre la previa formazione di un ruolo intestato alla società o all’ente”.

Quindi, nell’ordine, prima si accerta il debito d’imposta in capo alla società; questo debito, qualora non onorato, origina un ruolo intestato alla società.

Solo dopo aver verificato che vi sono i presupposti che coinvolgono la responsabilità dei rappresentanti - l’esistenza di un definitivo debito d’imposta, la presenza di valori e il mancato rispetto della graduazione dei crediti - si emetterebbe un apposito avviso di accertamento al quale seguirebbe un’autonoma iscrizione a ruolo.

Anche A.E. Granelli, in un articolo pubblicato sul Bollettino Tributario d’informazione, 1984, pag. 5, condivide l’impostazione: “Di particolare interesse è, poi, l’espresso rinvio della norma esame (trattasi dell’art. 36, sesto comma - N.d.A.) all’art. 39, I° comma, concernente gli effetti del ricorso contro il ruolo e la possibile sospensione della procedura esecutiva; si desume, infatti, da tale norma, che la declaratoria di responsabilità in tanto è possibile, in quanto l’imposta sia stata iscritta a ruolo”.

Impostazione condivisibile che poi risulterà essere stata seguita dalla giurisprudenza.

Vediamo come questa si è espressa al riguardo.

La Corte di cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza 3 giugno 1978, n. 2766, stabilisce che “debitore dell’imposta è solo la società ed anzi la responsabilità del liquidatore presuppone che il debito tributario della società sia diventato definitivo”.

Sempre la Corte di cassazione a Sezioni Unite, con sentenza 4 marzo 1989, n. 2079, insistendo sulla natura non tributaria della pretesa avanzata nei confronti di liquidatori e amministratori, sostiene che “tale responsabilità non trae origine da un’obbligazione o coobbligazione nel debito tributario, ma configura  una responsabilità per fatto proprio, che presuppone l’esistenza, e la definitività, di quel debito”.

E’ interessante ed esaurientemente motivata la sentenza della Cassazione del 10 novembre 1989, n. 4765: “Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, la responsabilità del liquidatore, o dell’ex amministratore liquidatore di fatto, di un soggetto tassabile in base a bilancio per il mancato pagamento delle imposte da quest’ultimo dovute, non presuppone una coobbligazione nel debito tributario ma soltanto un’obbligazione per fatto proprio, ancorché basata sulla esistenza e la definitività di quel debito (Sentt. 24 gennaio 1981, n. 549; 19 maggio 1980, n. 3270; 9 giugno 1978, n. 2925). Il fondamento di tale responsabilità si rinviene nella inosservanza di una specifica obbligazione ex lege dell’ex amministratore o del liquidatore nei confronti del fisco, avente ad oggetto il pagamento delle imposte della società con l’attivo sociale; imposte accertate nei confronti del contribuente - la società - con un procedimento al quale l’ex amministratore liquidatore rimane personalmente estraneo, essendo egli semplicemente tenuto, in detta sua veste, ad eseguire il pagamento dei debiti dell’ente rispondendo per fatto proprio dell’eventuale inadempienza. Non, dunque, coobbligazione nel debito tributario ma autonoma obbligazione personale, nel presupposto della mera esistenza di quel debito della società, che l’ex amministratore può disconoscere sotto il profili della mancanza dei requisiti della certezza e definitività (cfr. Cass., Sent. n. 6477/1986, sulla necessità dell’iscrizione del tributo a ruolo, a titolo non provvisorio ma definitivo)”.

Insomma, sia la dottrina che la giurisprudenza sono giunti alla conclusione che è sempre sostenuto che il rapporto tra l’obbligazione tributaria della società e quella civilistica dei rappresentanti sia di pregiudizialità/dipendenza.

 

Il rapporto tra la norma civile e quella tributaria

Ecco, allora, che l’innovazione normativa civilistica mette in seria crisi l’impostazione sin qui esposta. La cancellazione della società porta all’estinzione della stessa, ovvero alla impossibilità di rendere l’ente centro d’imputazione di obblighi e diritti. Di conseguenza, eventuali atti accertativi “notificati” alla società cancellata dal Registro delle Imprese risultano essere inesistenti poiché non esiste il destinatario del provvedimento. Proprio in questa fase del procedimento si dimostra tutta la debolezza della portata dell’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, in seguito alla innovazione civilistica: poiché il rapporto tra società e rappresentanti si incardina nello schema pregiudizialità/dipendenza, come sopra esposto, non potrebbe mai sorgere la responsabilità in capo ai rappresentanti.

Insomma, se l’atto accertativo definitivo, e il conseguente ruolo non riscosso, è il presupposto per l’azione contro i rappresentanti, la cancellazione della società non permette il consolidamento della pretesa in capo alla stessa.  In questa fase diventa, quindi, strumento inefficace la disposizione stabilita dall’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973. E allora, quali poteri restano all’erario per tutelare il proprio diritto di credito? La risposta è sempre nell’art. 2495 c.c. Questa disposizione ha carattere generale e si applica a tutti i creditori sociali rimasti insoddisfatti: tra questi vi è sicuramente l’erario. I suoi interessi sono perseguibili tramite un’azione contro i soci e i liquidatori. Tuttavia, per quanto riguarda la perseguibilità dei liquidatori, la disposizione è così formulata: “se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi”. Quando questa azione di recupero delle somme dovute all’erario era basata sull’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, si erano opposte due interpretazioni sulla responsabilità dei liquidatori: secondo alcuni si trattava di obbligazione - è bene ripeterlo, non d’imposta ma per fatto proprio - “oggettiva”, mentre per altri era “soggettiva”. In altri termini, si discuteva se:

1) in base alla teoria soggettiva, il debitore non è responsabile se si è comportato con diligenza. Questa visione valorizza massimamente l’art. 1176 c.c. In base a questo assunto, per essere esonerati da responsabilità si deve solo provare l’assenza di colpa, cioè di avere tenuto una condotta diligente;

ovvero se

2) in base alla teoria oggettiva, il debitore non è responsabile se prova che l’impossibilità sopravvenuta della prestazione è dovuta a causa non a lui imputabile.

L’incertezza, originata dalla formulazione dell’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, non ha ragione di esistere in quest’ambito, stante lo specifico riferimento normativo alla “colpa”, che conferisce alla responsabilità i caratteri della “soggettività”.

 

Conclusioni

L’innovazione civilistica, probabilmente senza la consapevolezza dei redattori, ha attenuato notevolmente la portata dell’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973. Gli atti notificati alla società cancellata risultano inesistenti, perché è inesistente il soggetto che dovrebbe esserne destinatario. L’azione accertativa dell’erario risulterebbe così vanificata e impraticabile tutta l’azione di recupero delle somme nei confronti del liquidatore, poiché dipendente dall’esistenza di un debito impositivo, in capo alla società, insoddisfatto. Questo, come visto, non potrebbe mai consolidarsi, anzi nemmeno viene (formalmente) ad esistere. Si può recuperare l’azione tramite lo strumento civilistico, come dimostrato. Certo, ha ambiti diversi, riguarda anche soggetti diversi: tuttavia consente di recuperare gran parte di quanto distrutto nell’art. 36. Dovrà essere innanzitutto l’Amministrazione finanziaria a rendersi conto dell’innovazione del sistema e percorrere le nuove vie dell’azione civile. Ma già da ora si prospetta una minore responsabilità in capo a liquidatori e amministratori che sarebbe bene colmare in via legislativa con un nuovo provvedimento, al fine di garantire una efficace esazione dei crediti erariali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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