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Da “Il Fisco” nn. 45-47-48/2008

 

  

La responsabilità e gli obblighi, nel sistema della  riscossione delle imposte sui redditi, degli amministratori, dei liquidatori e dei soci

 

 

 

Di Alberto Buscema

Componente della Commissione di Studio – Area Iva e Indirette – del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili

1) Introduzione

L’ordinamento tributario è composto da numerose discipline che regolano i vari momenti che riguardano la vita dell’obbligazione tributaria.

Così, mentre vi sono varie disposizioni che disciplinano la nascita dell’obbligazione tributaria, ve ne sono altre che impongono al contribuente di dichiarare al fisco l’avveramento del presupposto impositivo e altre ancora che dispongono i modi in cui estinguere tale rapporto obbligatorio.

E’ tuttavia nella riscossione che il fisco trova le disposizioni a tutela del proprio diritto di credito; è un settore delicato, nel quale sono disciplinati i vari strumenti che l’erario ha a disposizione per conseguire la ricchezza necessaria al funzionamento dello Stato.

Proprio per l’esigenza di salvaguardare le proprie entrate, che costituiscono in gran parte i mezzi di necessari al funzionamento della res pubblica, il legislatore ha adottato strumenti sempre più incisivi.

Non passi inosservato che proprio negli ultimi due anni una importante riforma del settore riscossione ha inteso limitare ulteriormente le occasioni del fenomeno noto come “evasione da riscossione”.

Anche in questa occasione di innovazione del sistema, però, la norma che ci accingiamo ad esaminare non ha subito modifiche, a riprova della sua efficacia dimostrata in quasi trenta anni di vita.

Certo, vedremo che vi sono ancora molte questioni interpretative controverse e che qui ci accingiamo a comporre.

Tuttavia possiamo definire tale disposizione, se ben interpretata, un vero e proprio baluardo a difesa degli interessi del fisco; per alcuni, per la verità esageratamente, una vera e propria garanzia personale di liquidatori e amministratori a favore dell’erario.

 

2) Il sistema della riscossione: in particolare, l’articolo 36

Le disposizioni sulla riscossione delle imposte, recate dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, disciplinano le diverse modalità con le quali l’erario entra in possesso dei valori originati dall’applicazione dei tributi.

Dicevamo che questo è l’ambito più delicato di tutto l’ordinamento tributario, perché senza adeguate disposizioni l’erario rischierebbe di vanificare qualsiasi azione accertativa, magari ben condotta.

Uno dei sistemi utilizzati dal legislatore per assicurare la riscossione delle imposte è quello di ergere a “garanti” - in senso improprio - dell’obbligazione tributaria alcuni soggetti che in qualche modo si trovano in contatto con la ricchezza prodotta e dovuta allo Stato.

Nella lettura del D.P.R. n. 602/1973 se ne individuano diversi; sono dei veri e propri – e qui li definiamo propriamente – “responsabili”,  dell’esito dell’esazione del credito tributario.

La responsabilità di questi soggetti, come vedremo riguardo allo specifico  articolo in esame, è di varia natura.

In particolare, a disporre tali vincoli obbligatori sono gli articoli  32, “Responsabilità solidale dei nuovi possessori di immobili”, 33 “Responsabilità solidale per l’imposta locale sui redditi” (imposta ormai abolita), 34 “Responsabilità solidale per l’imposta sui redditi delle persone fisiche”, 35 “Solidarietà del sostituto d’imposta” e 36 “Responsabilità ed obblighi degli amministratori, dei liquidatori e dei soci”.

L’articolo 36, sul quale verte il presente lavoro, è frutto dell’evoluzione normativa che ha avuto origine dall’art. 14 del R.D. 28 gennaio 1929, n. 360,  e si è evoluta prima attraverso l’art. 45 del R.D. 17 settembre 1931 n. 1608  e poi in forza delle disposizioni stabilite dall’art. 256 del T.U. 29 gennaio 1958 n. 645.

In tutti questi passaggi normativi la disposizione si è affinata: nella versione originale si disponeva la sola responsabilità dei liquidatori di società per le imposte dovute in relazione ai risultati della liquidazione; la stesura successiva specificava che la responsabilità dovesse intendersi commisurata alle attività della liquidazione distratte dai liquidatori; successivamente questa veniva estesa agli amministratori in carica all’atto dello scioglimento della società, qualora non si fosse provveduto alla nomina dei liquidatori.

Infine, giungendo alla penultima disposizione in vigore, l’art. 256 del T.U. n. 645/1958 così disponeva:

I liquidatori dei soggetti tassabili in base al bilancio che non adempiano all’obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute dal soggetto per il periodo della liquidazione e per quello anteriore, rispondono in proprio del pagamento delle imposte stesse. La disposizione contenuta nel precedente comma si applica agli amministratori in carica all’atto dello scioglimento della società o dell’ente se non si sia provveduto alla nomina dei liquidatori”.

Come si può notare, confrontando la precedente versione con l’attuale art. 36, vi sono numerose implementazioni che riguardano:

1)          l’estensione dei periodi d’imposta per i quali i liquidatori rispondono verso l’erario, non più identificati nel solo periodo della liquidazione e quello anteriore ma “per il periodo della liquidazione e per quelli anteriori”;

2)          l’introduzione della condizione alla quale subordinare la responsabilità, identificata dall’inciso “se soddisfano crediti di ordine inferiore a quelli tributari o assegnano beni ai soci o associati senza avere prima soddisfatto i crediti tributari”;

3)          la specificazione della misura della responsabilità, commisurandola “all’importo dei crediti di imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti”;

4)          l’estensione della responsabilità ai soci o associati che abbiano ricevuto “nel corso degli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione;

5)          l’introduzione della commisurazione della responsabilità di soci o associati “nel limite del valore dei beni stessi”;

6)          l’estensione di tutte le responsabilità sin qui indicate, eccettuate quelle a carico di soci e associati, “agli amministratori che hanno compiuto nel corso degli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione operazioni di liquidazione ovvero hanno occultato attività sociali anche mediante omissione nelle scritture contabili”.

Tutte queste previsioni normative verranno qui attentamente analizzate al fine di delineare il quadro completo delle responsabilità di ognuno di questi soggetti, in qualche modo coinvolti nell’attività di distrazione dei valori dovuti all’erario.

Prima di procedere all’analisi delle singole disposizione bisogna, tuttavia, procedere ad inquadrare la natura delle responsabilità alla quale soggiacciono i diversi soggetti sopra richiamati.

Vedremo che vi sono state, e permangono, numerose difficoltà, da parte sia della dottrina che della giurisprudenza, ad inquadrare sistematicamente gli istituti ai quali riferire detta responsabilità.

Come è noto l’ordinamento tributario non è un diritto autonomo, a sé stante, che disciplina compiutamente ogni situazione giuridica che intende regolamentare, ma richiama, o può richiamare, integrandosi, istituti già disciplinati da altri settori dell’ordinamento, recependoli pedissequamente o in parte.

La difficoltà dell’interprete nel settore tributario è quindi notevole, consistendo nella  profonda conoscenza di gran parte dell’ordinamento giuridico italiano e richiedendo, pertanto, un vero e proprio sforzo intellettuale.

La ricerca della migliore interpretazione possibile richiede di conoscere quali sono state le principali dispute della dottrina nei vari argomenti affrontati, quali sono state le argomentazioni e come si è orientata la giurisprudenza.

Una mole di informazioni che devono poi essere elaborate e “personalizzate” dalla sensibilità del giurista, che deve concludere il ragionamento armonizzandolo con tutte le disposizioni coinvolte.

Vedremo che proprio questo procedimento dovrà essere qui seguito e si darà conto dei vari sforzi che dottrina e giurisprudenza hanno fatto per rendere conciliabili posizioni che apparentemente tali non sono.

Per non inquinare la genuinità di tali sforzi ricostruttivi, e per non depotenziarne la persuasività, farò integrale riferimento ai testi originali redatti dalla migliore dottrina e alla Suprema Corte di Cassazione che si sono occupate dell’argomento in esame.

  

3) La natura della responsabilità de qua: civilistica o tributaria?

La norma che stiamo esaminando,  stabilisce che i liquidatori e gli amministratori rispondono in proprio del pagamento delle imposte dovute dalla società se soddisfano crediti di ordine inferiore a quelli tributari o se assegnano danaro o altri beni ai soci prima di avere soddisfatto crediti tributari.

Qualche riga sopra dicevamo che è fondamentale, nell’esame di questa norma, stabilire la  natura della responsabilità di liquidatori e amministratori; proprio su questa si sono concentrati i maggiori sforzi interpretativi.

La parte rimanente della disposizione, ovvero quella che tratta aspetti diversi da quelli strettamente inerenti alla responsabilità dei soggetti coinvolti,  per quanto altrettanto necessaria alla completa comprensione della norma, non ha dato luogo a  particolari dispute.

Lo sforzo maggiore, che ancora si intravede specialmente nella giurisprudenza più recente, è quello di stabilire la fonte di tali responsabilità e amalgamarne principi che, come vedremo, appaiono spesso inconciliabili.

La riconduzione dell’istituto al ramo pubblicistico piuttosto che a quello privatistico produce conseguenze diverse.

Per comprendere come si è svolto il confronto, sulla natura della responsabilità dei soggetti indicati all’art. 36, è necessario riportare le tesi di alcuni autorevoli autori che si sono cimentati nella ricostruzione dell’istituto in esame.

Diciamo subito che la disputa, che per alcuni versi è ancora in atto, è tra i sostenitori della natura fiscale  e quella civile delle responsabilità qui stabilite.

In passato la ricerca della natura, civilistica o fiscale, della responsabilità di amministratori e liquidatori, era determinata  dalle esigenze di carattere procedimentale dovendosi individuare la competenza dell’Amministrazione Finanziaria o dell’Autorità Giudiziaria ordinaria nell’accertarla.

Al tempo delle prime dispute dottrinali mancavano i riferimenti previsti dal quinto comma della disposizione in esame, che attribuiscono all’Agenzia delle Entrate l’accertamento delle responsabilità.

Pertanto era necessario individuare l’autorità competente ad occuparsi dei profili in questione; un argomento importantissimo per quei tempi, perché un errore di individuazione dell’organo accertante poteva comportare l’invalidità del procedimento.

Tuttavia, anche dopo l’introduzione della disposizione innovativa,  rappresentata dal comma quinto, dell’articolo 36, - che conferiva agli ex uffici delle imposte (ora Agenzia delle Entrate) l’accertamento delle responsabilità - restavano tutti i dubbi sulla reale natura di queste responsabilità.

Questa incertezza ha portato vari autori a confrontarsi sull’argomento.

La esposizione delle diverse opinioni dottrinali è rintracciabile sia nell’opera di A. Monti, nel suo saggio intitolato “La responsabilità nella normativa di diritto tributario degli amministratori e dei liquidatori di società”, Giuffrè Milano, 1991, pag. 40 e seguenti, che in quella di M.C. Fregni, in “Obbligazione tributaria e codice civile”, Giappichelli Editore, Torino, 1998, pag. 93 e seguenti.

I richiami ivi citati vengono qui di seguito riportati.

L’opinione di A.D. Giannini, espressa in “Istituzioni di diritto tributario”, Milano 1960, pag. 88, sulla natura di tali disposizioni, era che le stesse avessero natura fiscale, partendo dall’ovvio presupposto che il fondamento della disposizione fosse  una norma tributaria.

Sembra che la collocazione della stessa nell’ambito della disciplina sulla “Riscossione delle imposte” fosse sufficiente per tale autore a chiarirne l’intera natura.

Questa posizione mi sembra invero criticabile, perché, come abbiamo già avuto modo di esporre, e come sottolinea la moderna dottrina tributaristica (R. Lupi, “Diritto Tributario, parte generale”, Giuffrè, 1998, pag. 45- G. Falsitta, “Manuale di Diritto Tributario”, parte generale, IV ed, Cedam, pag. 174) nell’interpretazione di una norma, così come nella sua formulazione, possono essere richiamati concetti che trovano la loro fonte in altri rami dell’ordinamento.

Questi si devono poter amalgamare anche alla norma in questione.

Ancora più chiare le parole di E. De Mita, in “Interesse fiscale e tutela del contribuente”, Giuffrè, 2000, pag. 196:

Come è stato già rilevato da molto tempo da M.S.Giannini (e riconosciuto dallo stesso Vanoni), nella disciplina dei rapporti e delle loro vicende il diritto tributario non inventa nulla, ma utilizza regole e istituti di altri campi, introducendo eventualmente delle deroghe finalizzate al raggiungimento dei propri fini”.

Per meglio specificare il campo d’azione del legislatore, in conformità a quanto evidenziato dalla Corte Costituzionale, delle cui decisioni  De Mita è autorevole studioso, così egli prosegue a pag. 202:

Nel rispetto della Costituzione le operazioni del legislatore tributario rispetto agli strumenti offerti dal diritto civile possono essere le più varie: a) può utilizzare gli istituti civilistici nella loro interezza; b) può utilizzarli parzialmente, nel senso che può introdurre variazioni nella disciplina civilistica; c) può interamente prescindere da essi”.

Sulla base di queste necessarie considerazioni, si può condividere che la natura della norma in esame sia fiscale se ci si vuole riferire solo all’ovvia radice, ma se lo scopo è individuare la natura delle disposizioni - nel caso che ci occupa rappresentata dal fondamento delle responsabilità da questa stabilita - si deve necessariamente indagare sui possibili collegamenti con altri settori dell’ordinamento. 

Quindi, più che sulla natura della disposizione, si doveva indagare sui suoi contenuti, tentando di approfondirne i caratteri, che vedremo essere multiformi.

Diversamente da A.D Giannini, aderivano alla natura civilistica della disposizione sia M. Romanelli, in “L’obbligazione del liquidatore per il mancato pagamento dei debiti d’imposta della società”, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1941,II, pag. 207, che V. Bompani, in “Contributo alla teoria dell’obbligazione tributaria”, in Dir. Prat. Trib., 1935, I, pag. 421 e seguenti.

Secondo quest’ultimo autore, in particolare, i liquidatori sarebbero obbligati ad un risarcimento; questo sarebbe originato invero “non già in dipendenza di un iniziale rapporto con il bene oggetto (in senso finanziario) del tributo, ma in conseguenza di un particolare comportamento doloso o colposo”.

E’ proprio quest’ultimo profilo ad interessare maggiormente la dottrina; vedremo poi che anche la giurisprudenza ha dimostrato incertezze interpretative, assestandosi solo recentemente.

Tuttavia è interessante notare che Bompani, negando qualsiasi riferimento al rapporto con il bene oggetto del tributo, prende le distanze,  pur non espressamente, dall’istituto del “responsabile d’imposta”, disciplinato dall’art. 64, comma 2, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

Questa, come è noto, così dispone:

Chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento dell’imposta insieme con altri, per fatti o situazioni esclusivamente riferibili a questi, ha diritto di rivalsa”.

Questa disposizione attiva la responsabilità solidale ma, si badi bene, solo per fatti o situazioni esclusivamente riferibili ai debitori d’imposta; la responsabilità che qui emerge, lo vedremo meglio in seguito, è, diversamente, attribuibile ad un fatto proprio.

C’è proprio lo scollamento che il Bompani lascia larvatamente  intendere.

Tornando alle ricostruzioni tentate dalla dottrina, quella  recente, qui rappresentata dagli autori A. Monti e M.C. Fregni, opp. cit., cerca di coniugare i due diversi aspetti, in un tentativo di razionalizzazione dell’istituto, separando l’aspetto formale di tali responsabilità, che trova regolamentazione in una norma tributaria, dall’aspetto sostanziale, cioè la parte che disciplina gli effetti della disposizione, di evidente natura civilistica.

A mio avviso questo è il tentativo meglio riuscito; in altre parole, rifacendoci alla struttura dell’ordinamento tributario, che nelle righe precedenti  è stata descritta come poliedrica, a cagione delle sue possibili contaminazioni da parte di altri settori dell’ordinamento generale, è corretto non fermarsi alla semplice collocazione della norma ma indagarne la natura, il contenuto.

Altrimenti dovremmo concludere che tutte le disposizioni tributarie hanno esclusivamente natura tributaria; invece l’assunto di partenza (si vedano citazioni di R. Lupi, G. Falsitta ed E. De Mita sopra riportate), sostenuto dalla migliore dottrina e costantemente avallato dalle decisioni della Corte Costituzionale, dimostra il contrario.

Stabilito che la norma ha effetti civilistici, procediamo con la disamina.

E’ proprio su questi effetti che si evidenziano le divisioni più marcate; c’è chi non vuole abbandonare la natura fiscale pur accettando la teoria civilistica.

Così M. Miccinesi, “Solidarietà nel diritto tributario”, in Dig. Comm., vol XIV, Torino 1997, pag. 453, sostiene la natura fiscale della responsabilità dei liquidatori, avallando l’idea che le teorie civilistiche “sono idonee a cogliere il titolo giustificativo della responsabilità dei liquidatori (l’illecita destinazione delle attività della liquidazione), ma non tolgono che fonte della stessa sia la ricordata disposizione fiscale e che, correlativamente, tale responsabilità si configuri nei termini di una coobbligazione solidale (dipendente), il cui unico oggetto è rappresentato dal debito d’imposta”.

Miccinesi incorre nella svista di considerare l’oggetto della responsabilità nel debito d’imposta; non si accorge che la responsabilità dei soggetti citati non si origina con il mancato pagamento del debito d’imposta ma solo nel momento in cui questi distraggono le attività dell’ente o società per fini diversi.

Il debito d’imposta è solo la misura massima del risarcimento dovuto; quindi non è l’oggetto, restando questo costituito dal fatto proprio degli amministratori e dei liquidatori.

A quest’autore si critica anche la tesi della supposta solidarietà tra società e rappresentanti (intesi come i soggetti indicati dall’art. 36 nelle specifiche fasi della vita sociale, amministratori e liquidatori), poichè vi sono obbligazioni distinte, una che ha ad oggetto il debito tributario e l’altra che ha ad oggetto il fatto proprio.

Lo evidenzia bene l’inciso contenuto nel primo comma dell’art. 36, nella parte in cui, facendo riferimento ai liquidatori, dispone che questi “rispondono in proprio del pagamento delle imposte”.

I successivi commi 2 e 4 rinviano a questa disposizione per disciplinare la responsabilità degli amministratori, che risulta così omologa.

Un altra autrice, M.C. Fregni, op. cit. pag. 96, si impegna in  un altro tipo di ricostruzione.

Questa sostiene che la ratio della norma sia sostanzialmente civilistica, poiché le responsabilità del liquidatore e dell’amministratore non sono collegate ad un presupposto d’imposta, ad un fatto espressivo di capacità contributiva, bensì ad un comportamento illecito, e pone a carico di tali soggetti un obbligo risarcitorio.

Fino a qui il ragionamento è condivisibile.

Tuttavia per la Fregni il contenuto della norma è tributario, poiché posto integralmente dalla norma tributaria senza alcun tipo di richiamo, né implicito né esplicito, al codice civile;  la norma, non subendo alcun tipo di contaminazione civile, ha ad oggetto il debito fiscale e non una responsabilità civilistica e risarcitoria.

L’autrice conclude per inquadrare la responsabilità tra quelle stabilite ex lege, secondo le norme degli artt. 1176 e 1218 c.c.: in particolare ritiene che l’infrazione della norma in esame dia luogo a responsabilità oggettiva, derivante dalla sussistenza di attività nel patrimonio della società in liquidazione e dalla distrazione di tali attività a fini diversi dal pagamento delle imposte, e non rilevano i requisiti soggettivi individuabili nel dolo o nella colpa.

Per concludere la Fregni, di fronte alla prospettiva del fisco di utilizzare sia la normativa civilistica che quella fiscale, per perseguire liquidatori e amministratori,  sostiene la inapplicabilità della normativa civilistica, senza tuttavia fornire una motivazione.

Come detto, solo la prima parte della tesi della Fregni è condivisibile.

Non così la seconda: la norma non ha ad oggetto un debito fiscale ma questo è solo uno dei parametri di commisurazione del danno causato all’erario, l’altro è la misura della distrazione dell’attivo insieme alla graduazione dei crediti.

Insieme stabiliscono il “quantum” di risarcimento dovuto all’erario per il danno cagionatogli.

La responsabilità, invece, non ha ad oggetto il debito fiscale, ma questo è il presupposto perché quella possa originarsi.

Solo il fatto proprio dei liquidatori e degli amministratori la fa sorgere.

Non si concorda nemmeno con la teoria sull’irrilevanza dei requisiti soggettivi di dolo o colpa.

Quest’aspetto verrà approfondito nel prosieguo.

E’ a favore della teoria civilistica, invece,  F. Tesauro, in “La responsabilità fiscale dei liquidatori”, in Giur. Comm., 1977, I, pag. 428; per questo autore, i liquidatori  non sono soggetti passivi d’imposta ma sono “tenuti per una obbligazione di natura civilistica, che ha l’unica particolarità di essere accertata e riscossa nei modi previsti per l’obbligazione tributaria. Anche il contenzioso è quello previsto per le obbligazioni tributarie, ma tutto ciò nulla toglie alla natura non tributaria dell’obbligazione dei liquidatori”.

Prosegue affermando che l’obbligazione facente capo ai liquidatori “nasce da un illecito: è la sanzione di un illecito e ha funzione risarcitoria. Non è dunque una obbligazione tributaria in senso tecnico sebbene le sue vicende (costituzione, estinzione ecc.) seguano forme tributarie”.

L’autore, a mio avviso, coglie, sin qui, in pieno l’interpretazione della norma.

Questo autore, tuttavia,  prosegue sostenendo che - scegliendo tra i diversi tipi di responsabilità stabiliti dalle norme civili - si tratterebbe di responsabilità di natura aquiliana e, come tale, richiederebbe i requisiti della colpa o del dolo per intergrarne gli estremi.

Quest’ultimo profilo sarebbe condiviso anche da G. Falsitta, in “Natura ed accertamento delle responsabilità dei liquidatori per il mancato pagamento delle imposte dirette dovute dagli enti tassabili in base al bilancio”, in Riv. Dir. Fin sc. Fin., 1963, I, pag. 260 e seguenti.

Non condivido questa impostazione: se si accetta il richiamo alla natura civilistica della responsabilità si deve accettarne anche l’intera disciplina.

Il Falsitta è giustificabile perché ha preso posizione nel 1963, all’epoca in cui non esisteva ancora l’art. 36 ma vi era il suo precursore, l’art. 256 del T.U. 29 gennaio 1958 n. 645.

Qui la disposizione era meno precisa e anche la giurisprudenza aveva concluso per la responsabilità aquiliana.

Tuttavia non è accettabile la conclusione del Tesauro, che scrive nel 1977, quindi nella vigenza del testo attuale.

La formulazione attuale, molto circostanziata nel descrivere il fatto che origina la responsabilità, porta alla conclusione che si sia in presenza di un fatto idoneo a produrre l’obbligazione e non di un illecito generico.

Nella disciplina delle obbligazioni, e in particolare nell’art. 1173 del codice civile, è stabilito che:

Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.

Se l’ordinamento giuridico,  nella fattispecie qui esaminata rappresentato dall’art. 36, stabilisce il fatto idoneo a produrla (e quindi la valutazione sulla ingiustizia del danno è già stata fatta dal legislatore) questo deve essere ricondotto alla figura della responsabilità contrattuale.

Pertanto non ci si può più  riferire all’ipotesi dell’obbligazione da  fatto illecito.

Nel primo la valutazione sull’ingiustizia del danno è stata soppesata dal legislatore mentre nel fatto illecito è il giudice che deve stabilire se l’interesse leso, per usare parole del F.Galgano, Diritto Privato, Cedam, 2001, pag. 367 “è degno di protezione secondo l’ordinamento giuridico e se la lesione, di conseguenza, costituisce un danno <ingiusto> che deve essere risarcito”.

La responsabilità di liquidatori e amministratori è di natura civilistica anche per  A. Monti, op. cit. pag. 44, la quale, giustamente, sottolinea la frase normativa che ne dispone la commisurazione all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti.

Per l’autrice, questa espressione “oltre a porre a carico dei liquidatori l’obbligo di osservare nei confronti del fisco creditore l’ordine di graduazione dei crediti, finisce altresì per chiarire il significato del quale deve essere intesa la formula per la quale l’obbligo di pagare le imposte sussiste per i liquidatori solo se esistano e nei limiti in cui esistano attività da liquidare. Da quella espressione è dato infatti desumere che anche la sanzione conseguente all’inosservanza di quest’obbligo trova il proprio limite nel danno concretamente arrecato alle ragioni dell’erario”.

Ritengo condivisibile la esauriente  posizione della Monti nella parte in cui ritiene di natura civilistica la responsabilità dei liquidatori e degli amministratori in quanto non semplicemente commisurata  al debito fiscale del soggetto rappresentato, - la quale commisurazione avrebbe consentito di definire la posizione del liquidatore quale coobbligato dipendente - ma calibrata sulla sussistenza di attivo non ripartibile tra altri creditori muniti di privilegio di grado superiore a quello tributario.

Inquadrare la questione in questo modo consente di ripudiare, limitatamente a questo aspetto, la teoria della coobbligazione tributaria poiché questa significa obbligazione solidale relativamente al debito d’imposta; mentre nel caso in esame si tratta di una responsabilità per fatto proprio.

Insomma la tesi sulla responsabilità civilistica si impone per coerenza; viene inoltre avallata dall’interpretazione letterale della locuzione “rispondono in proprio”.

Non appare, poi, controvertibile nella parte in cui sanziona l’illecito nella misura del  danno  effettivamente arrecato all’erario, cioè facendo riferimento alla graduazione dei crediti e alla presenza di attivo liquidabile.

Se il liquidatore ereditasse una situazione societaria debitoria verso l’erario e attivo sufficiente solo a coprire i crediti di grado superiore a quello fiscale, nessuna responsabilità potrebbe mai attivarsi a suo carico.  

Vedremo che anche la giurisprudenza si è attestata su questa linea interpretativa, insistendo sulla configurazione di un rapporto obbligatorio autonomo e distinto da quello tributario.

Le tesi di chi voleva ricondurre la responsabilità di questi rappresentanti all’imposta del soggetto rappresentato, interpretazione che avrebbe condotto alla configurazione di  una obbligazione solidale tra questi nei confronti dell’erario, sono state rigettate.

Questa posizione interpretativa della giurisprudenza è condivisibile limitatamente a questo aspetto del problema.

Vedremo che vi sono altri aspetti sui quali ha assunto una posizione criticabile, che si risolve assolutamente in favore del fisco senza che ne sia esplicitata una adeguata motivazione.

 

4) Fonte dell’ obbligazione, ovvero dal fatto illecito alla obbligazione “ex lege

Una volta stabilito che ci si trova di fronte ad una responsabilità per danno ci si deve chiedere qual è la fonte dell’obbligazione, ovvero stabilire se questa abbia origine contrattuale oppure extracontrattuale.

Abbiamo già affrontato un diverso aspetto del problema in sede di confutazione di un parte del pensiero del Tesauro.

Tuttavia ora procediamo ad indagare una diversa sfaccettatura del problema e per questo riproduciamo qui sotto la disposizione civile, la lettura della quale aiuta visivamente il lettore.

Per stabilire l’origine delle obbligazioni ci si deve riferire all’articolo 1173 del codice civile, che disciplina le fonti dell’obbligazione.

La disposizione in questione è così articolata:

Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.  

Come si vede vi è una tripartizione delle fonti dell’obbligazione e non ne sono previste altre.

Tuttavia vedremo che la dottrina, e la giurisprudenza più recente  continuano, ancora oggi, a fare riferimento ad una fonte “impropria”: quella della obbligazione “ex lege”.

Tale obbligazione troverebbe la sua fonte nella legge e, quindi, la disposizione in esame, disciplinando puntualmente il comportamento che i liquidatori e gli amministratori devono tenere, sarebbe proprio la fonte dell’obbligazione.

Questa conclusione sembra condivisa, o comunque accettata de plano, senza opporre alcuna critica, sia da A. Monti, op. cit. pag.  50, che da M.C. Fregni, op. cit. pag. 97.

In giurisprudenza la Cassazione, sentenza n. 2079 del 4 marzo 1989, stabilisce “che il rapporto giuridico in forza del quale il liquidatore e amministratore è tenuto a rispondere in proprio delle imposte evase, non è fondato sul dolo o sulla colpa, ma ha la sua fonte in una obbligazione ex lege …”.

Ancora la Cassazione, con sentenza n. 4765 del 10 novembre 1989, rileva: “Il fondamento di tale responsabilità si rinviene nella inosservanza di una specifica obbligazione “ex lege” dell’ex amministratore o del liquidatore nei confronti del fisco …”. 

Seguono altre sentenze dello stesso tenore che hanno consolidato l’orientamento della giurisprudenza in questo senso.

Abbiamo, tuttavia, prima sottolineato quali sono le fonti delle obbligazioni e tra queste non vi è alcun richiamo alla legge.

Ed è proprio la ricerca del fondamento di tale assunto che ha portato chi scrive a ricercarne la matrice, essendo convinto che nell’art. 36 si potessero trovare proprio gli estremi dei fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico.

Questo dubbio ha permesso di chiarire che tale ricostruzione, della obbligazione ex lege, è indubbiamente un modo improprio di ricondurre le obbligazioni derivanti da “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” alla legge.

Infatti, come autorevolmente puntualizza il Galgano, in “Diritto Civile e Commerciale”, vol. II, Le obbligazioni e i contratti, tomo I, Cedam, 2004, pag. 35 :

La legge non produce obbligazioni se non con la mediazione di atti o fatti giuridici: sono questi, dunque, la fonte delle obbligazioni”.

Di più: per l’autore “l’incoerenza di questa figura appare evidente se si considera che anche le obbligazioni da contratto e le obbligazioni da fatto illecito sarebbero, a pari titolo, da considerare come obbligazioni derivanti dalla legge, giacchè è pur sempre la legge che, ad esempio, impone al compratore di pagare il prezzo della cosa comperata (aer. 1498) ed è la legge che impone a chi ha commesso un fatto illecito di risarcire il danno (art. 2043) Qui è agevole obiettare che la legge considera il contratto di vendita un atto idoneo a produrre obbligazioni e che essa attribuisce uguale idoneità al fatto che presenti i caratteri del fatto illecito. Ma è non meno agevole dire, ad esempio, che l’obbligo a contrarre del monopolista (art. 2597) non è una obbligazione ex lege, ma è una obbligazione che deriva dal concorso di un fatto giuridico (l’esercizio di una impresa in condizione di monopolio legale) e di un atto giuridico (la richiesta di prestazioni dall’utente al monopolista)”. Condivisibilmente, dunque, questo autorevole autore riporta nella corretta sede l’inquadramento della fattispecie, notando che la categoria delle obbligazioni ex lege non sarebbero altro che un retaggio culturale attinto dai codici dell’ottocento, i quali prevedevano proprio la legge tra le fonti dell’obbligazione.

Insomma, per concludere, le disposizioni dell’articolo 36 - nella parte in cui prevedono puntualmente i fatti che originano la responsabilità di amministratori e liquidatori - producono l’effetto di ricondurli nell’alveo delle obbligazioni civili poiché così dispone l’ordinamento giuridico.

 

5) Sulle teorie della responsabilità soggettiva od oggettiva

Abbiamo sin qui dimostrato che la responsabilità originata dall’art. 36 è di natura civile e che la fonte dell’obbligazione è riconducibile ai fatti puntualmente disciplinati da tale disposizione, come tali considerati idonei a produrre il vincolo giuridico.   

Tuttavia, una volta chiariti questi ambiti, resta da stabilire il “tipo” di responsabilità alla quale vanno incontro i soggetti, liquidatori e amministratori, che non adempiono al pagamento delle imposte dovute dal loro rappresentato. 

Per comprendere i termini del problema bisogna innanzitutto individuare le norme che  disciplinano  le conseguenze del mancato adempimento.

Poiché stiamo trattando di una obbligazione, le norme di riferimento sono l’art. 1176, che stabilisce qual è la diligenza richiesta nell’adempimento, e l’art. 1218, che prevede i criteri di determinazione della responsabilità del debitore inadempiente.

Queste due norme sono costantemente richiamate anche dalla giurisprudenza che si è occupata della responsabilità de qua.

La dottrina di fronteggia sulla ricostruzione teorica degli effetti di queste due norme,  per risolverne l’apparente contrasto.

La disputa è stata impostata  attorno a due teorie, la teoria oggettiva e la teoria soggettiva:

1) la teoria soggettiva: secondo i sostenitori della teoria soggettiva, il debitore non è responsabile se si è comportato con diligenza. Questa visione valorizza massimamente  l’articolo 1176 del codice civile. In base a questo assunto, per essere esonerati da responsabilità si deve solo provare l’assenza di colpa, cioè di avere tenuto una condotta  diligente ;

2) la teoria oggettiva:  gli assertori della teoria oggettiva, invece, sostengono che  il debitore non è responsabile se prova che l’impossibilità sopravvenuta della prestazione è dovuta a  causa non a lui imputabile.

Questa ricostruzione teorica esimerebbe il debitore da responsabilità se riesce a provare:

1) innanzitutto qual’è il fatto specifico che ha causato l’inadempimento;

2) che il fatto è dovuto ad un evento straordinario e imprevedibile a lui non imputabile, ovvero il cosiddetto caso fortuito.

In pratica, per quest’ultima teoria,  il debitore potrebbe anche riuscire a provare di essere stato diligente, tuttavia non riuscire a provare l’evento specifico  oppure  la sua inimputabilità: in tal caso sarebbe ritenuto ugualmente responsabile.

Quest’ultimo criterio prescinderebbe dalla diligenza del comportamento e attribuirebbe l’assenza di responsabilità solo all’evento estraneo al dominio dell’uomo.

Tuttavia, nel caso dell’articolo 36 qui in esame, rendere un soggetto responsabile per il solo fatto che riveste una carica (in questo si risolverebbe la responsabilità perché il liquidatore ha l’obbligo di assolvere il mandato q quindi di procedere alla liquidazione dell’attivo e al pagamento dei debiti; ma se la responsabilità non la si ricollega a colpa e  dolo, egli risponde anche per i debiti d’imposta che non riesce a rintracciare, p.es. quelli originati dai precedenti rappresentanti)  sembra eccessivamente oneroso e contrario al principio della diligenza, che si trova positivamente stabilito nell’art. 1176.

Insomma, se l’articolo 1176 stabilisce qual è la diligenza richiesta nell’adempimento,  non sarebbe consentito, nel comprendere i criteri di determinazione della responsabilità del debitore inadempiente, leggere l’art. 1218 dissociandolo completamente dall’art. 1176 .

E’ comunque interessante notare che la giurisprudenza civile, diversamente da quella tributaria, fornisce una interpretazione che aderisce alla teoria della responsabilità soggettiva.

In questo senso,  la Cassazione, sentenza del 30 ottobre 1986, n. 6404, in Giur. It., 1987, I, 1, c. 2060, sostiene che:

in ipotesi di inadempimento contrattuale, la cui imputabilità è regolata dall’art. 1218 c.c., norma da coordinarsi con il disposto dell’art. 1176 c.c. sul grado di diligenza richiesta al debitore nell’adempimento, la prova liberatoria che può fornire quest’ultimo non si sostanzia esclusivamente in quella positiva del caso fortuito o della forza maggiore, ma può considerarsi raggiunta ogni qual volta il debitore provi che l’esatto adempimento è mancato nonostante egli abbia seguito le regole dell’ordinaria diligenza”.

E’ opportuno, poi, evidenziare che è l’art. 1218 del codice civile che pone a carico del debitore l’onere della prova liberatoria.

Ciò premesso si deve osservare che la giurisprudenza tributaria appare, sul punto, diversamente orientata.

Per la Commissione Tributaria Centrale, decisione del 12 luglio 1979 n. 9310, così come per la Cassazione a Sezioni Unite, sentenza del 10 giugno 1978 n. 2925,  incombe sul soggetto dichiarato responsabile l’onere di provare la insussistenza dei presupposti della responsabilità”.

Tuttavia la CTC appena citata così definisce i presupposti di responsabilità  di liquidatori e amministratori: “l’Amministrazione finanziaria, pertanto, la quale provi la ricorrenza degli indicati elementi obiettivi (sussistenza di attività nel patrimonio della società e distrazione di tali attività da parte di liquidatori o amministratori per fini diversi dal pagamento delle imposte dovute, N.D.A.) , può far valere detta responsabilità senza necessità di preventivo infruttuoso esperimento di azione esecutiva contro la società, a prescindere da dolo o colpa dei liquidatori o di amministratori…”.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, nella sentenza del 4 marzo 1989 n. 2079, riferisce di un clamoroso revirement interpretativo della giurisprudenza:

Alla radice dell’espresso indirizzo giurisprudenziale (quello, cioè, che considera il debito del rappresentante quale originato da comportamento illecito per l’infrazione della norma, N.D.A.) sta il rilievo che la responsabilità considerata non è collegata all’inadempimento di una obbligazione tributaria, ma al fatto proprio del liquidatore, individuato in talune decisioni nella condotta dolosa o colposa del soggetto (cfr. Cass. 3021/71 e 1284/72 cit.), ma successivamente puntualizzato nel senso che la responsabilità stessa trova fonte in un rapporto obbligatorio autonomo e distinto da quello tributario, non solidale né sussidiario, il quale nasce ope legis, per effetto della sussistenza di “attività” nel patrimonio della società in liquidazione, ovvero di quella per la quale si sia verificata una causa di scioglimento e indipendentemente dall’apertura formale dello stato di liquidazione, nonché per effetto della circostanza della distrazione di tali “attività”, da parte dei liquidatori o amministratori, a fini diversi dal pagamento delle imposte dovute (Cass. 1273/1976). Deve essere, pertanto, ribadito che il rapporto giuridico in forza del quale il liquidatore e amministratore è tenuto a rispondere in proprio delle imposte evase, non è fondato sul dolo o sulla colpa, ma ha la sua fonte in una obbligazione ex lege, di cui il liquidatore è responsabile secondo le norme comuni degli artt. 1176 e 1218 c.c. in relazione agli elementi obiettivi della sussistenza di attività nel patrimonio della società in liquidazione e della distrazione di tali attività a fini diversi dal pagamento delle imposte dovute (Cass. nn. 3270/1981, 2972/1977)”.

Questa sentenza non brilla per chiarezza concettuale: infatti non si comprende la ragione per cui vi sarebbero obbligazioni la cui responsabilità per inadempimento è attribuibile solo in base agli elementi soggettivi del dolo o della colpa e altre che sarebbero disciplinate dagli artt. 1176 e 1218 c.c.

Invero, una volta stabilito che si tratta di una obbligazione impropriamente definita “ope legis” – o come sopra meglio specificato, per fatto idoneo a produrre l’obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico –  (e comunque per ogni tipo di obbligazione civile, sia contrattuale che extracontrattuale) gli artt. 1176 e 1218 cc. sarebbero sempre applicabili poiché disposizioni disciplinanti ogni specie di   obbligazioni.

La giurisprudenza insiste in tale percorso interpretativo e gli stessi concetti sono stati ribaditi con la sentenza della Cassazione n. 9688 del 14 settembre 1995.

Anche altri autori ritengono poco coerente e poco argomentato questo approccio.

Ecco cosa pensa la A. Monti, op. cit., pag. 111, nota 52, di queste motivazioni giurisprudenziali:

A noi pare infatti che con l’espressione ora ricordata i giudici intendano semplicemente sottolineare come la maggiore determinatezza del comportamento richiesto dall’attuale disciplina rispetto a quella previgente importi che le responsabilità in questione debbano ormai venire inquadrate nell’ambito della cosiddetta responsabilità contrattuale, anziché nell’ambito della cosiddetta responsabilità extracontrattuale arrivando altresì alla conclusione (peraltro non necessaria) che tratterebbesi di  <responsabilità oggettiva>”.

Questa può sicuramente essere la chiave di lettura, ma si evidenzi che la giurisprudenza citata non ne ha mai dato contezza; sarebbe stato opportuno che i giudici avessero evitato un così evidente salto argomentativo e avessero permesso la   lettura del loro celato pensiero.

Certamente condivisibile, per concludere sull’argomento, è la posizione della Monti – con la quale vi è convergenza di vedute, seppure con angolazioni diverse - nella parte in cui specifica che da un eventuale inquadramento della questione in termini di responsabilità contrattuale non ne discenderebbe l’automatica conseguenza della responsabilità oggettiva.

Abbiamo visto sopra che la diatriba è aperta tra sostenitori della responsabilità oggettiva e della responsabilità soggettiva; tuttavia quest’ultima sembra prevalere in dottrina e negli altri settori della giurisprudenza diversi da quella tributaria.

E appare la più conferente se non si vuole concludere che la responsabilità non sarebbe più un fatto che dipende dalla persona, dalla sua diligenza, dalla sua correttezza – così ben rappresentate nel codice e svilite improvvisamente da questa impostazione -  ma risulterebbe fuori dal proprio dominio, dal proprio controllo, interpretazione che uscirebbe, oltretutto, dalla tradizionale impostazione della nostra dottrina in ambito di obbligazioni contrattuali.

Mi sembra una evidente forzatura quella tentata dalla giurisprudenza nel sostenere da una parte l’applicabilità degli artt. 1176 e 1218 del codice civile per poi sostenere che non rilevano gli aspetti soggettivi della responsabilità.

Perché gli altri settori della giurisprudenza giungono a conclusioni diametralmente opposte nella lettura degli stessi articoli?

Questo appare un mal riuscito tentativo di fare convivere profili civilistici di responsabilità con quelli tributari del preminente interesse fiscale.

Se l’ordinamento giuridico è unico o si individua una diversa natura della disposizione, cioè quella tributaria – ma abbiamo visto che la strada non è percorribile -  o, se si accede a quella civile, la si deve percorrere fino in fondo.

Tertium non datur.

Insomma, o si condivide la tesi che la responsabilità de qua è quella del responsabile d’imposta, oppure si deve percorrere fino in fondo il sentiero civilistico.

Escludo, tuttavia, che tali soggetti possano essere inquadrati quali responsabili d’imposta, poiché non hanno alcuna possibilità di esercitare il diritto di rivalsa garantito dall’art. 64 del D.P.R. n. 600/1973. 

Di questo non ne sono intimamente convinto solo io ma anche la Corte di Cassazione, che esplicita il suo pensiero nella sentenza 14 marzo 1978, n. 1273.

Per questi giudici:

la rivalsa non è nemmeno ipotizzabile; l’obbligazione a carico del liquidatore non si presenta quale conseguenza ineluttabile del mancato pagamento da parte della società (obbligata principale), come accade sempre in ogni ipotesi di responsabilità di imposta in senso proprio, e l’interessato può evitare di incorrervi sol che si uniformi al comportamento che il legislatore gli impone, astenendosi dal distrarre le attività sociali e preoccupandosi eventualmente di presentare istanza di fallimento”.

La dottrina porta questa lettura ad ulteriori conseguenze.

Per Lattanzi, Bollettino Tributario d’informazione, 1983, pag. 1671, il responsabile d’imposta è “colui che, ai sensi dell’art. 64 del D.P.R. n. 600/1973, risponde insieme ad altri per fatti esclusivamente imputabili a questi e non anche a se stesso.

Non è dato intravedere, infine, la figura del responsabile d’imposta là dove la responsabilità solidale del soggetto sia prevista nel contesto di norme aventi carattere sanzionatorio. Ciò in quanto, per ciò solo, deve ammettersi che il soggetto sia responsabile per fatto proprio e non per fatto altrui”.

Tuttavia, anche se si continuasse a sostenere questa linea interpretativa “ibrida” ci si deve rendere conto delle implicazioni che comporta dal punto di vista dell’interpretazione di preminenti valori Costituzionali.

La responsabilità oggettiva de qua conseguirebbe alla distrazione dei valori societari, o dell’ente, da parte dei rappresentanti e per fini diversi dal pagamento del debito d’imposta Ires, ritenendo che i liquidatori e gli amministratori possano conoscere tutti i debiti fiscali pregressi dell’ente, ovvero questi possano essere in qualche modo quantificati.

Sul questo punto è la stessa sentenza della Cassazione, 14 marzo 1978, n. 1273, ad esporre il ragionamento:

La responsabilità personale dei liquidatori non discende da una negligenza nella individuazione oggettiva del debito e nella ricerca dei creditori da soddisfare, e quindi da un comportamento colposo nello svolgimento delle relative indagini, per la fondamentale ragione che i debiti fiscali per imposte dirette non possono sfuggire anche al più superficiale esame della contabilità sociale, essendo strutturalmente connaturati alla esistenza della società.

La responsabilità dei liquidatori è obiettiva perché non è ammessa da parte loro l’allegazione e la prova dell’ignoranza del debito fiscale, trovando tale qualificazione la sua razionale giustificazione proprio nella facilità del controllo da effettuare in materia”.

La motivazione fa leva sulla, assolutamente contestabile, facilità di controllo e sulla rintracciabilità del debito anche “al più superficiale esame della contabilità sociale”.

Una lettura del genere sarebbe possibile se l’art. 36 si riferisse ai soli debiti originati rispettivamente dalla dichiarazione dei redditi, e rimasti impagati, o da accertamenti divenuti definitivi.

Ma allora si farebbe leva ancora una volta sul concetto di colpa del liquidatore, perché qui sarebbe evidente!

Questo è il pensiero ricorrente nelle sentenze della Suprema Corte.

Può essere interessante rilevare che non tutti la pensano così.

Sul punto, per esempio, è di diverso avviso la Commissione Tributaria Regionale di Roma, Sez. II, sentenza del 20 marzo 1998, n. 2.

Il caso in questione riguardava due avvisi di accertamento dei redditi relativi agli anni 1983/1984, notificati al liquidatore alcuni giorni dopo l’avvenuta cancellazione della società.

La sentenza è così motivata:

Ciò premesso, osserva questa Commissione che secondo il costante insegnamento della S.C. la responsabilità del liquidatore ex art. 36, D.P.R. n. 602/1973 è una responsabilità per fatto proprio basata sulla esistenza del debito tributario della società (Cass. nn. 2925/1978 – 549/1987 – 6477/1987 – 4765/1989). Non può, quindi, prescindersi da una condotta colpevole del liquidatore.”

La lettura che questi giudici danno della disposizione è quella che a mio avviso appare corretta.

Non si condividono le conclusioni alle quali poi la sentenza giunge, e che qui commentiamo:

Ne consegue che perché possa sussistere la responsabilità del liquidatore questi deve conoscere l’esistenza della pretesa fiscale dell’amministrazione nei confronti della società prima del completamento delle operazioni di liquidazione. Nella specie è pacifico e non è contestato che il D.B.G. l’ha avuta successivamente al completamento delle operazioni di liquidazione ed alla cancellazione della società”.

Invero l’insorgenza del debito tributario avviene alla data in cui si verifica il presupposto impositivo e non dopo.

Ciò che veramente conta, per applicare correttamente il principio della colpevolezza, non è che l’amministrazione finanziaria se ne accorga ma che il liquidatore non fosse in condizione, nonostante la sua massima diligenza, di accorgersi dell’esistenza del debito, perché, per esempio, originatosi in periodi d’imposta in cui non era lui il rappresentante della società.

Altrimenti vi sarebbe un facilissimo aggiramento della norma: non vi sarebbe alcun problema a non pagare le imposte dell’ultimo periodo d’imposta di liquidazione, a tacer d’altro, perché il fisco non potrebbe che accorgersi del debito successivamente alla cessazione della società.

Tuttavia la sentenza appena citata è stata poi seguita da una decisone autorevole della Corte di Cassazione.

Questa, sentenza del 17 giugno 2002, n. 8685, è così argomentata:

nella specie, costituiscono, invece, circostanze incontestate tra le parti quelle secondo cui le attività di liquidazione addebitate all’intimato sono state compiute negli anni 1978 e 1979, e secondo cui i debiti tributari, di cui si chiede il pagamento ex art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973, sono stati iscritti nei ruoli del 1985 e del 1990; sicchè, difettano le condizioni oggettive per l’esperibilità dell’azione di responsabilità, posto che l’obbligazione legale prevista dalla più volte citata disposizione insorge allorquando ricorrono gli elementi oggettivi della sussistenza di attività nel patrimonio della società in liquidazione (o liquidata di fatto) e della distrazione di tali attività a fini diversi dal pagamento delle imposte dovute, vale a dire di imposte che abbiano acquisito i caratteri della certezza e della definitività”.

La lettura delle sentenze sulla responsabilità oggettiva rivelano profili irrazionali.

Come si può arrivare a sostenere l’oggettiva responsabilità del liquidatore o dell’amministratore fondandola sulla teoria oggettiva, che non ammette quasi alcuna discolpa, e poi sostenere che il rappresentante deve avere la conoscenza della pretesa tributaria prima della cessazione della società per essere dichiarato responsabile?

Non è una lettura consentita, mostra tutta la sua debolezza, il suo dissidio logico.

E si pone in contrasto con le altre pronunce che sostengono la facilità della verifica e quantificazione del debito tributario in capo al liquidatore perché i calcoli fiscali sarebbero semplici.

Si notano davvero gli sforzi dei giudici nel tirare una coperta che, sostenendo la teoria oggettiva, resta corta.

Si passa dall’intransigenza assoluta di chi vuole il liquidatore come un “garante personale di tutta o parte dell’obbligazione tributaria”, nei limiti della ripartizione dell’attivo e della graduazione del credito, indipendentemente da quando avviene la notifica dell’avviso di accertamento e chi diversamente la ritiene sussistere senza possibilità di “discolparsi” se non per il fatto che il ruolo  è stato notificato alla società dopo la cancellazione.

Qui emergerebbe la massima contraddizione nella teoria della responsabilità oggettiva: non si può utilizzare il criterio della colpa se l’atto viene posto in riscossione durante l’esistenza della società, per un debito tributario non onorato dal liquidatore con l’avvenuta ripartizione di attivo in misura pregiudizievole, invece si può utilizzare il criterio della colpa per giustificare il liquidatore se l’atto è stato posto in riscossione (tramite la notifica del ruolo che conferisce certezza e definitività) dopo la cancellazione della società (a meno che non si voglia introdurre una ulteriore variabile: che per debito d’imposta nell’articolo 36 si sia inteso imposta liquidata e quindi la responsabilità si origini solo nel momento della certezza ed esigibilità del credito, cui fa riferimento l’art. 14 del D.P.R. n. 602/1973. Ma la lettera della norma non lascia dubbi sul fatto che il legislatore ha disposto diversamente).

Utilizzando il criterio soggettivo ciò non avverrebbe perché l’obbligazione tributaria sorge nel momento in cui si verifica il presupposto d’imposta e il liquidatore potrebbe giustificarsi di fronte all’accertata pretesa solo dimostrando che non poteva averne contezza utilizzando il criterio della diligenza.    

La responsabilità, così, verrebbe esclusa, per esempio, se la contestazione fosse basata su presunzioni, come tali non certamente basate su prove certe (magari riguardanti i periodi d’imposta precedenti a quello in cui il liquidatore è stato investito della carica) ; oppure con contestazioni di operazioni non transitate per la contabilità e contestate, magari, ad un altro rappresentante.

Si tenga conto che il comma 1, dell’articolo in questione, riferisce ai liquidatori la responsabilità, sempre qualora ripartiscano l’attivo, per le imposte originate anche in periodi d’imposta precedenti alla liquidazione.

E quindi anni in cui poteva non esserci quel liquidatore e non trovare alcuna traccia nella contabilità delle operazioni sopra menzionate.

E allora: quale razionalità hanno simili ricostruzioni interpretative?

Se la norma avesse un tale significato se ne dimostrerebbe l’irragionevolezza, che condurrebbe alla declaratoria di incostituzionalità.

Pertanto si impone l’interpretazione adeguatrice che tenga in necessario conto del requisito soggettivo della colpa o del dolo.

 

 

6) Rapporti tra l’obbligazione tributaria della società e quella derivante dalla responsabilità di liquidatori e amministratori

Abbiamo chiarito che la responsabilità di amministratori e liquidatori è sì prevista da norme di carattere tributario ma è sostanzialmente di natura civilistica e comporta il risarcimento del danno causato da questi soggetti all’erario, seppure nella specifica misura indicata dall’articolo in esame.

E’ ora il momento di affrontare il vincolo che lega l’obbligazione tributaria a carico della società alle responsabilità del soggetto, liquidatore o amministratore, che viola le disposizioni stabilite dall’art. 36 sulla ripartizione dell’attivo.

In dottrina si assiste ad una contrapposizione di teorie che tendono, rispettivamente, ad accomunare o a dissociare i destini dei liquidatori e amministratori con quelli della società inadempiente.

Abbiamo già affrontato i profili  che caratterizzano l’obbligazione di questi soggetti, concludendo che questa non assume i caratteri del vincolo solidale; tuttavia l’obbligazione risarcitoria dipende in qualche modo dall’esistenza di un debito dell’ente rappresentato, non adempiuto dal rappresentante.

Perlomeno questa è la conclusione alla quale giunge sia la dottrina dominante che la giurisprudenza.

E in effetti è condivisibile e facilmente dimostrabile l’esistenza di  un vincolo, di una vera a propria dipendenza, che si genera tra l’obbligazione tributaria rimasta inadempiuta e l’obbligazione, per fatto proprio, in capo al soggetto che non ha provveduto al pagamento delle imposte distraendo le attività per altri scopi.  

E’, infatti, evidente, a parere di chi scrive, che non vi potrebbe essere alcuna responsabilità del liquidatore se non venisse ad esistenza il debito tributario del soggetto rappresentato; e questo viene (formalmente) ad esistere nel momento in cui viene notificato all’ente l’atto di accertamento.

In altre parole, se quanto sin qui riportato dimostra che la responsabilità di liquidatori e amministratori deriva dal mancato adempimento di una obbligazione civilistica, che sorge a carico di determinati soggetti nel momento in cui questi distraggono risorse sociali per scopi diversi da quelli di estinzione dell’obbligazione tributaria, è ovvio che nessuna responsabilità potrebbe esservi per i soggetti rappresentanti che dovessero ripartire beni in assenza di debiti d’imposta del rappresentato.

Fino a qui sembra che vi sia unanimità di vedute anche in dottrina.

Puntualizzerei che questa responsabilità, come ho avuto modo di esporre, non coinvolge in alcun modo nell’obbligazione tributaria i soggetti rappresentanti, poiché questa resta un vincolo a carico dell’ente rappresentato conseguente ad una sua manifestazione di capacità contributiva; insomma la responsabilità dell’ente riguarda l’obbligazione tributaria inadempiuta, quella dei rappresentanti ha ad oggetto il danno causato all’erario per non avere destinato al pagamento delle imposte le ricchezze dell’ente.

Quindi i due soggetti coinvolti sono vincolati da due diverse forme di responsabilità, pur rilevanti nei confronti dello stesso soggetto creditore, l’erario.

Giammai potrebbe avvenire, come vedremo è stato sostenuto, che la responsabilità del rappresentante derivi da un atto impositivo direttamente notificato al rappresentante, senza che questo sia previamente transitato per la sfera giuridica del rappresentato.

Tuttavia, nonostante la dottrina e la giurisprudenza propendano per il vincolo di dipendenza dell’obbligazione dei rappresentanti rispetto a quella del rappresentato, si deve dare contezza di un altro orientamento che rende autonome le azioni di recupero dell’imposta, attribuendo all’erario il potere di procedere direttamente nei confronti di liquidatori e amministratori con l’atto che ne accerta le responsabilità.

Questa dottrina, A. Parlato, “Il responsabile d’imposta”, Milano, 1963, pag. 131 e seguenti, ritiene che, pur in presenza di una responsabilità dei rappresentanti per il loro fatto illecito, vi sarebbe un loro obbligo di pagare le imposte in proprio e non insieme alla società nel limite previsto dalla norma in esame.

Ciò sarebbe in particolare possibile nella fase successiva alla cessazione della società e qui troverebbe specifico fondamento nel fatto che il liquidatore è responsabile dei debiti sociali rimasti insoluti.

Insomma, secondo questa dottrina, se l’insolvenza fiscale della società è stata determinata dal liquidatore o dall’amministratore, questi ne risponderebbero totalmente in proprio (nel senso sopra e appresso precisati).

Da questo ragionamento ne conseguirebbe ovviamente,  la riferibilità ai liquidatori, in proprio, degli atti accertativi senza previamente notificarli o procedere alle iscrizioni a ruolo nei confronti della società.

Conclusione che abbiamo sopra confutato e che ci sembra ripudiabile per la diversità della fonte dell’obbligazione.

In dottrina, A. Monti, op. cit. pag. 97, giunge alla più puntuale conclusione che il vincolo di dipendenza che lega il rappresentante al rappresentato si origina solo dopo la formazione del ruolo intestato alla società o all’ente.

Ella avalla l’inestensibilità soggettiva del ruolo di riscossione e che, già storicamente, la dottrina (tra tutti E. Allorio, Diritto processuale tributario, pag. 147 e G. Falsitta, Natura ed accertamento della responsabilità dei liquidatori, pag. 142) avvertiva la necessità che i presupposti specifici della responsabilità dei liquidatori venissero autonomamente accertati attraverso le fasi di un procedimento formale. 

Questa conclusione sarebbe poi supportata a livello normativo dalla combinata lettura degli artt. 36, ultimo comma, il quale richiama l’art. 39, primo comma dello stesso D.P.R. n. 602/1973.

Questo rinvio dimostrerebbe la necessità che all’avviso di accertamento individuante le specifiche responsabilità di amministratori e liquidatori dovesse fare seguito un autonomo titolo esecutivo.

Insomma non sarebbe possibile rendere esecutivo nei confronti di liquidatori e amministratori  un ruolo intestato alla società.

La lettura di queste norme, secondo la Monti, porterebbe “alla conclusione che l’accertamento e la riscossione nei confronti dei soggetti indicati all’art. 36 richieda sempre la previa formazione di un ruolo intestato alla società o all’ente”.

Quindi nell’ordine, prima si accerta il debito d’imposta in capo alla società; questo debito, qualora non onorato, origina un ruolo intestato alla società.

Solo dopo aver verificato che vi sono i presupposti che coinvolgono la responsabilità dei rappresentanti – l’esistenza di un definitivo debito d’imposta, la presenza di valori e il mancato rispetto della graduazione dei crediti – si emetterebbe un apposito avviso di accertamento al quale seguirebbe un autonoma iscrizione a ruolo.   

Anche A.E. Granelli, in un articolo apparso sul Bollettino Tributario d’informazione, 1984, pag. 5, condivide l’impostazione:

Di particolare interesse è, poi, l’espresso rinvio della norma esame (trattasi dell’art. 36, comma 6, NDA) all’art. 39, I° comma, concernente gli effetti del ricorso contro il ruolo e la possibile sospensione della procedura esecutiva; si desume, infatti, da tale norma, che la declaratoria di responsabilità in tanto è possibile, in quanto l’imposta sia stata iscritta a ruolo”.

Impostazione condivisibile che poi risulterà essere stata seguita dalla giurisprudenza.

Allora vediamo come si è espressa la giurisprudenza tributaria al riguardo.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza del 3 giugno 1978 n. 2766, stabilisce che “debitore dell’imposta è solo la società ed anzi la responsabilità del liquidatore presuppone che il debito tributario della società sia diventato definitivo”.

Attenzione: è il procedimento di accertamento della responsabilità del liquidatore che è subordinato all’emissione del ruolo in capo alla società.

La responsabilità vera e propria si origina con la distrazione dell’attivo in violazione della graduazione dei crediti, lasciando insoluto il debito d’imposta già originatosi.

Sempre la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sentenza del 4 marzo 1989 n. 2079, insistendo sulla natura non tributaria della pretesa avanzata nei confronti di liquidatori e amministratori, sostiene che “tale responsabilità non trae(va) origine da un’obbligazione o coobbligazione nel debito tributario, ma configura(va) una responsabilità per fatto proprio, che presuppone l’esistenza, e la definitività, di quel debito”.

E’ interessante ed esaurientemente motivata la sentenza della Cassazione del 10 novembre 1989 n. 4765:

Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, la responsabilità del liquidatore, o dell’ex amministratore liquidatore di fatto, di un soggetto tassabile in base a bilancio per il mancato pagamento delle imposte da quest’ultimo dovute, non presuppone una coobbligazione nel debito tributario ma soltanto un’obbligazione per fatto proprio, ancorché basata sulla esistenza e la definitività di quel debito (sent. 24 gennaio 1981, n. 549; 19 maggio 1980, n. 3270; 9 giugno 1978, n. 2925). Il fondamento di tale responsabilità si rinviene nella inosservanza di una specifica obbligazione <ex lege> dell’ex amministratore o del liquidatore nei confronti del fisco, avente ad oggetto il pagamento delle imposte della società con l’attivo sociale; imposte accertate nei confronti del contribuente – la società – con un procedimento al quale l’ex amministratore liquidatore rimane personalmente estraneo, essendo egli semplicemente tenuto, in detta sua veste, ad eseguire il pagamento dei debiti dell’ente rispondendo per fatto proprio dell’eventuale inadempienza. Non, dunque, coobbligazione nel debito tributario ma autonoma obbligazione personale, nel presupposto della mera esistenza di quel debito della società, che l’ex amministratore può disconoscere sotto il profili della mancanza dei requisiti della certezza e definitività (cfr. Cass., sent. N. 6477 del 1986, sulla necessità dell’iscrizione del tributo a ruolo, a titolo non provvisorio ma definitivo)”.

Nel tempo le sentenze si fanno ancora più precise; così la Corte di Cassazione, sentenza 15 ottobre 2001 n. 12546:

L’azione di responsabilità nei confronti del liquidatore di una società con riguardo ai crediti per imposta sul reddito delle persone giuridiche, i cui presupposti si siano verificati a carico della stessa, ancorché accertati successivamente, che l’art. 36, d.p.r. n. 602/73, al pari dell’abrogato art. 265, d.p.r. 29 gennaio 1958, n. 645, riconosce all’amministrazione finanziaria nel caso che questi abbia esaurito le disponibilità della liquidazione senza provvedere al loro pagamento, è esercitatile alla duplice condizione che i ruoli in cui siano iscritti i tributi della società possano essere posti in riscossione e che sia acquisita legale certezza che i medesimi non siano stati soddisfatti con le attività della liquidazione medesima (cfr.: Cass. civ., sez. un., sent. 6 maggio 1985, n. 2820; Cass. civ., sez. 1, sent. 7 giugno 1989, n. 2768; Cass. civ. sez. 1, sent. 14 settembre 1995, n. 9688).

Tali principi vengono ribaditi nelle sentenze della Corte di Cassazione del 17 giugno 2002, n. 8685 e del 17 giugno 2005, n. 13096.

Limitatamente a questo punto - il concetto di pregiudizialità/dipendenza -  si è raggiunta la piena convergenza di vedute da parte di dottrina e giurisprudenza.

 

7) Contestabilità dell’an e quantum della pretesa fiscale, a carico del soggetto rappresentato, da parte di liquidatori e amministratori

Un altro punto delicato che suscita interesse e divide dottrina e giurisprudenza è quello che riguarda il debito fiscale della società, dalla cui sorte poi dipenderebbe quella dei soggetti rappresentanti.

Secondo la tesi sin qui esposta, vi sarebbe una bipartizione delle responsabilità nei confronti dell’erario: una della società o dell’ente che non adempie all’obbligazione tributaria, quindi al debito d’imposta, e l’altra di liquidatori e  amministratori che distraggono le ricchezze del rappresentato per fini diversi dal pagamento delle imposte.

Abbiamo evidenziato che la definitività del debito fiscale, caratterizzata dalla notifica del ruolo all’ente o alla società, consente di attivare la procedura stabilita dall’art. 36 a carico dei rappresentanti qualora fosse dimostrata la presenza di valori nell’ente al momento dell’insorgenza del debito tributario e il soddisfacimento di crediti di ordine inferiore  a quelli tributari.

Sembrerebbe, quindi, che i liquidatori e gli amministratori siano ritenuti responsabili del danno causato all’erario commisurabile, come massimo, all’importo del debito d’imposta dell’ente.

Ci si chiede, quindi: possono i rappresentanti contestare il debito d’imposta che si è definito in capo all’ente o società?

E’ indubbio, infatti, che un loro “diritto di difesa” dovrebbe esserci, cioè che questi soggetti dovrebbero poter contestare sia il fondamento della loro responsabilità, dimostrando di avere agito diligentemente nei confronti dell’erario, sia il fondamento originante la pretesa risarcitoria, conferendo loro la possibilità di contestare la fondatezza della pretesa tributaria in capo al rappresentato.

In questo modo sarebbe davvero garantito a questi soggetti una difesa piena, sotto tutti i profili.

Per quanto riguarda il fondamento della loro responsabilità abbiamo già riportato il pensiero della giurisprudenza tributaria che dimostra di aderire a teorie oggettive; ribadiamo che altra giurisprudenza non è d’accordo,  che  la dottrina dominante è per la teoria soggettiva e che quest’ultima meglio si adatterebbe - a nostro avviso e con le ampie argomentazioni esposte a favore di una lesione ai principi costituzionali a cui condurrebbe una tale lettura - ai requisiti di condotta richiesti nell’adempimento delle obbligazioni, indicati dai parametri di correttezza e diligenza.

Tuttavia per quanto riguarda la contestabilità da parte di liquidatori e amministratori, dell’an e quantum della pretesa tributaria a carico della società, si assiste ad una chiusura totale da parte della giurisprudenza muovendo dal presupposto che le fonti delle due responsabilità sono diverse e quindi devono restare separati anche i loro presupposti.

Questa argomentazione non convince perché è vero che le fonti delle due obbligazioni sono diverse, una tributaria basata sul principio di capacità contributiva  e l’altra risarcitoria fondata sull’obbligazione “contrattuale”, ma queste sono legate a doppio filo tale per cui solo se esiste la prima può esistere la seconda e la misura della prima è un parametro essenziale della seconda.

Se di una qualche responsabilità si deve essere imputati si deve anche potere dare il modo al soggetto di contestare l’esistenza e la quantificazione del presupposto.

Tuttavia, almeno per ora, bisogna fare i conti con questo atteggiamento giurisprudenziale assolutamente dominante.

Vediamo, in dettaglio i ragionamenti esplicitati dalla giurisprudenza sul tema; poi vedremo le conclusioni di autorevole dottrina che divergono completamente, qui assolutamente condivise.

La Corte di Cassazione, sentenza del 7 giugno 1989 n. 2767, ritiene che i rappresentanti delle società siano tenuti, nei limiti stabiliti dall’art. 36, “al pagamento dei debiti d’imposta accertati nei confronti dell’ente sociale per un titolo autonomo di responsabilità, rispetto al quale l’obbligazione fiscale si pone come un semplice presupposto di fatto, non controvertibile dallo stesso amministratore”.

Più esplicita la Corte di Cassazione, sezione I, del 10 novembre 1989 n. 4765, che spiega quali sono le fonti dell’obbligazione a carico dei rappresentanti:

Il fondamento di tale responsabilità si rinviene nella inosservanza di una specifica obbligazione <ex lege> dell’ex amministratore o del liquidatore nei confronti del fisco, avente ad oggetto il pagamento delle imposte della società con l’attivo sociale; imposte accertate nei confronti del contribuente – la società – con un procedimento al quale l’ex amministratore liquidatore rimane personalmente estraneo, essendo egli semplicemente tenuto, in detta sua veste, ad eseguire il pagamento dei debiti dell’ente rispondendo per fatto proprio dell’eventuale inadempienza.”

Incidentalmente si esprime anche la Cassazione, sez. I, con sentenza 14 settembre 1995 n. 9688:

secondo la giurisprudenza di questa Corte incombe sul soggetto dichiarato responsabile con il provvedimento di attuazione della pretesa sanzionatoria l’onere di assumere l’iniziativa processuale volta ad ottenere il controllo giurisdizionale e l’onere di provare l’insussistenza dei presupposti – diversi dal debito d’imposta della società – di tale responsabilità.”

Ancora facendo leva sulla diversità delle obbligazioni in capo a società e rappresentanti che omettono di onorare i debiti d’imposta della prima si esprime la Cassazione con sentenza del 15 ottobre 2001, n. 12546:

La natura e l’oggetto di tale responsabilità comportano, quindi, che, pur dipendendo l’attualità della stessa dalla conseguita certezza e definitività del debito tributario, l’obbligato è del tutto estraneo al procedimento diretto all’accertamento del medesimo e che, conseguentemente, eventuali ragioni di invalidità di tale procedimento non possono essere opposte dal liquidatore o amministratore-liquidatore di fatto e rilevate dal giudice”.

Questo il contestabile panorama giurisprudenziale sull’argomento.

In dottrina vi è chi, persuasivamente, sostiene la diversa, e qui condivisa, teoria avversa secondo la quale è invece necessario garantire al soggetto rappresentante la possibilità di contestare la pretesa fiscale dalla quale origina  la sua responsabilità.

E’ ancora la A. Monti, op. cit., pag. 121 e seguenti, che prende posizione sul tema partendo dal possibile inquadramento della questione in termini di “solidarietà dipendente”.

Constatando che alcuni rapporti giuridici facenti capo a soggetti diversi vi possano essere vincoli di pregiudizialità-dipendenza, riporta alcuna dottrina del passato che era giunta alla conseguenza dell’incontestabilità del giudicato formatosi sul rapporto principale nei riguardi del soggetto titolare del rapporto dipendente.

Il concetto di “cosa giudicata rispetto ai terzi”, continua la Monti, è stato respinto dalla Corte Costituzionale con la decisione 22 marzo 1971, n. 55.

Elaborando i concetti espressi da questa decisione la dottrina ha chiarito come debba ritenersi ormai un principio incontestabile “quello per il quale la disciplina di un rapporto cosiddetto dipendente può considerarsi conforme al dettato costituzionale soltanto qualora sia offerta al titolare del medesimo la possibilità di difendersi contro giudicati formatisi sul rapporto principale in seguito a giudizi ai quali egli non sia stato posto in condizioni di partecipare, ovvero, a maggior ragione, contro atti amministrativi, pure inerenti al rapporto principale, resisi incontestabili per effetto dell’inerzia del titolare del relativo potere di impugnazione”.

Questa impostazione potrebbe essere derogata solo in un, ovvio, particolare caso: quello in cui il rappresentante ritenuto successivamente responsabile della distrazione dell’attivo riceva l’atto impositivo del soggetto principale.

Questo soggetto non sarebbe, diversamente, mai vincolato se l’avviso di accertamento intestato al debitore principale fosse notificato ad altri soggetti (es. altri liquidatori o amministratori della stessa società), perché non si garantirebbe al primo la completa possibilità di difesa.

Insomma, posto che l’art. 36, sesto comma, richiama l’articolo 39, primo comma, e che la combinata lettura delle disposizioni dimostra che si può agire nei confronti del rappresentante solo quando il debito d’imposta è diventato definitivo, questi non deve subire passivamente le conseguenze di atti che si sono cristallizzati nella altrui sfera giuridica ma deve poter essere posto nella condizione di contestarne la fondatezza con riguardo alla sussistenza della sua responsabilità.

Infatti sono legati a doppio filo, e credo che questa affermazione sia incontrovertibile, i rapporti che riguardano l’esistenza del debito d’imposta e la responsabilità di amministratori e liquidatori di tal che se non esiste il primo non esiste il secondo.

E allora se di profili di responsabilità si deve parlare non si può pregiudicare la difesa del responsabile sostenendo che l’obbligazione principale riguardava un diverso soggetto e quindi non è più contestabile, perché si esclude la possibilità di contestare l’esistenza stessa della responsabilità dipendente, o la sua misura.

 

8) La responsabilità dei  soci o associati: le differenze rispetto a quelle di amministratori e liquidatori

Un altro punto di particolare interesse riguarda la responsabilità che la norma in esame addossa ai soci o associati, prevista dal comma 3.

Questa parte della norma appare abbastanza trascurata dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

L’articolo include gli associati perché la disposizione in esame si riferisce anche ai soggetti Ires e tra questi vi sono anche le associazioni.

E’ bene, preliminarmente, chiarire che la disposizione si riferisce tuttora all’imposta sul reddito delle persone giuridiche nonostante questa non sia più in vigore perchè sostituita dall’imposta sul reddito delle società, per effetto del Decreto Legislativo 12 dicembre 2003, n. 344.

Proprio in base a questo provvedimento legislativo è consentito di riferire le disposizioni dell’art. 36 all’Ires, nonostante l’omesso, e consueto per il legislatore tributario, aggiornamento del testo.

Dicevamo che l’art. 36 coinvolge anche la responsabilità di “soci e associati, che hanno ricevuto nel corso degli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione”.

Tale responsabilità riguarda il pagamento delle imposte dovute dai soggetti Ires nel limite del valore dei beni stessi, salvo le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile.

Anche l’analisi di questo periodo legislativo ha portato la dottrina ad interrogarsi sulla natura della responsabilità di questi soggetti.

Un  autore, N. Dolfin, in “Profili innovativi della responsabilità dei liquidatori, degli amministratori e dei soci, introdotta dall’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973”, in Riv. Fin. Sc. Fin., 1976, pag. 266, sostiene che il fondamento della responsabilità dei soci sarebbe da ricercare nel principio generale che vieta l’indebito arricchimento, confermando in tal modo la comune matrice civilistica delle responsabilità stabilite dall’art. 36 e rifiutandone la configurazione quale obbligazione tributaria.

L’applicabilità del principio generale, che vieta l’indebito arricchimento, era stata riconosciuta, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, con riguardo all’analoga previsione dell’articolo 2456, secondo comma, del codice civile (ora art. 2495, secondo comma, del codice civile).

Pertanto sarebbe configurabile anche nel caso in questione.

Poiché tale disposizione è già specificamente prevista dal codice civile, ci si potrebbe interrogare sulla superfluità di ripetere la sostanzialmente analoga disposizione nell’ambito tributario.

La domanda ha un suo fondamento logico e mirerebbe a dimostrare che una lettura di tal genere renderebbe la disposizione come inutiliter data.

Ma l’interprete deve sempre trovare una ragione per salvaguardare la norma: nel caso che qui ci occupa, la ragione sta nel concedere al fisco uno strumento più consono nonché agevole rispetto all’esercizio di una ordinaria azione civile.  

La conferma di questa impostazione viene da A. Monti, in una diversa opera rispetto a quella precedentemente citata, “La responsabilità dei liquidatori, amministratori e soci prevista dall’art. 36 D.P.R. n. 602/1973: gli aspetti sostanziali dell’istituto”, in Rassegna Tributaria, n. 3, 1986, pag. 76.

Qui la Monti riferisce che è dalla stessa relazione ministeriale al D.P.R. n. 602/1973 che si potrebbe individuare la ratio della disposizione.

Lì si afferma che la configurazione di tale responsabilità “adempie, in definitiva, ad una funzione analoga a quella della revocatoria in sede civile”.

Questo riferimento permetterebbe di comprendere l’intenzione del legislatore a predisporre uno strumento con caratteristiche civilistiche ma snello, facendo comunque salve le ulteriori azioni civilistiche che la norma salvaguarda.

A questo punto ci si deve chiedere perché tali autori, nonostante il blando e fugace riferimento contenuto nella relazione ministeriale – che come è noto, in base alle consolidate tesi di recente dottrina, non costituisce un valido metodo di indagine della volontà del legislatore – abbiano con sicurezza configurato la norma in chiave civilistica, senza accennare a diverse possibili ricostruzioni concettuali.

Invero, una verifica interpretativa dovrebbe essere condotta sull’articolo 64 del D.P.R. n. 600/1973 per stabilirne una eventuale applicabilità oppure sancirne la definitiva esclusione.

L’articolo introduce la figura del <responsabile d’imposta>, così individuandolo:

Chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento dell’imposta insieme con altri, per fatti o situazioni esclusivamente riferibili a questi, ha diritto di rivalsa”.

Questa è una figura generale alla quale si possono ricondurre specifiche disposizioni analiticamente poste dal legislatore.

Per la Corte Costituzionale, sentenza 20 dicembre 2000, n. 557, la legge può “stabilire prestazioni tributarie a carico, oltrechè del debitore principale, anche di altri soggetti, purchè non estranei al presupposto d’imposta, costituendo unico limite alla discrezionalità del legislatore la non irragionevolezza del criterio di collegamento utilizzato per l’individuazione dei predetti responsabili d’imposta”.

Questo ragionamento deve essere confrontato con la specifica disposizione, l’articolo 36.

Si evidenzia subito che la situazione dei soci e degli associati non è analoga a quella dei liquidatori: per questi ultimi vi sono elementi letterali che hanno condotto, come già visto, sia la dottrina che la giurisprudenza a considerarli responsabili in proprio.

Per costoro, come abbiamo avuto modo di precisare, la disciplina in esame ha carattere sanzionatorio e non li coinvolge nella garanzia strettamente impositiva.

Per i soci e gli associati, diversamente, non vi sono riferimenti a fatti propri ma a meri ricevimenti di beni e il limite della loro responsabilità è parametrata al valore di quanto ricevuto.

Una disposizione simile, volta a garantire l’esazione dei tributi e non, lo si ripete, a carattere sanzionatorio, è quella rinvenibile nelle disposizioni che trattano della cessione d’azienda.

Ci si riferisce in particolare all’articolo 14 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.

Qui si dispone che il cessionario di azienda sia responsabile in solido con il cedente, entro i limiti del valore dell’azienda o del ramo d’azienda, per il pagamento dell’imposta e delle sanzioni riferibili all’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti.

Tuttavia la disposizione così prevede:

L’obbligazione del cessionario è limitata al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria e degli enti preposti all’accertamento dei tributi di loro competenza”.

Per non ingenerare malintesi, è bene preliminarmente chiarire perché la disposizione è collocata nella legge sulle sanzioni amministrative e perché è stata stabilita la solidarietà anche per queste.

In dottrina è S. Donatelli, in “Osservazioni sulla responsabilità tributaria del cessionario d’azienda”, Rassegna Tributaria, n. 2/2003, pag. 489, a spiegare che:

Nella circostanza che il cessionario risponda solidalmente non solo per l’imposta ma anche per le sanzioni si può chiaramente leggere una deroga al carattere strettamente personale che connota la sanzione amministrativa tributaria; difatti il cessionario si trova a rispondere per un fatto altrui alla cui realizzazione non ha in alcun modo partecipato, se non per il semplice acquisto dell’azienda”.

Chiarito quest’aspetto si deve procedere a giustificare la mancata assimilazione della responsabilità dei soci a quella del responsabile d’imposta.

Valorizzando i principi stabiliti dalla Corte Costituzionale con la sentenza testè citata,  l’unico limite alla discrezionalità del legislatore è costituito dalla non irragionevolezza del criterio di collegamento utilizzato per l’individuazione dei predetti responsabili d’imposta.

Il criterio di collegamento, nella fattispecie del cessionario di azienda, è stato individuato sì dalla cessione dell’azienda, cespite dal quale sono stati ritratti i proventi che hanno originato la materia imponibile e quindi il debito d’imposta, ma a questo il legislatore ha ritenuto di dovere affiancare una “esimente”, dipendente dalla volontà del cessionario, specificando che la responsabilità d’imposta  sia  limitata al debito risultante dagli atti dell’amministrazione finanziaria.

Chiaramente questi atti possono e debbono poter essere richiesti al cedente il quale li esibirà al cessionario.

Insomma il legislatore non ha ritenuto sufficiente ad originare la responsabilità del cessionario il mero verificarsi dell’evento “oggettivo” ma gli ha conferito la possibilità di tutelarsi.

Questa differenza, rispetto al caso che investe i soci e gli associati, – soggetti sforniti di possibilità di reazione di fronte ad una tale previsione - sarebbe a mio avviso sufficiente a discostarne il trattamento e a ripudiarne la configurazione quali responsabili d’imposta.

Ad abundantiam evidenziamo che:

1)         nell’art. 14, del D.Lgs. n. 472/1997, il legislatore fa espressamente riferimento alla solidarietà, mentre la disposizione in esame è priva di tale definizione;

  2) l’art. 64 del D.P.R. n. 600/1973 prevede l’obbligo di     rivalsa, esperibile verso la società: ma questa risulta impossibile, posto che ci si rivolge ai soci solo dopo che il tentativo di riscossione nei confronti della società è andato a vuoto, cioè i beni sono fuoriusciti dalla sua sfera giuridica e non ci sono attivi per onorare il debito d’imposta.

Si giunge, quindi, a giustificare l’assimilazione della figura a quella civilistica degli “indebitamente arricchiti”, così corroborando le tesi della dottrina sopra riportata.

Volgiamo ora l’attenzione ad altri aspetti della disposizione.

E’ interessante evidenziare che la responsabilità che coinvolge i soci, diversamente da quella che riguarda i liquidatori e gli amministratori, viene perimetrata in due frazioni  temporali: la prima decorre dai due periodi d’imposta precedenti alla “messa in liquidazione” fino a questa, mentre la seconda procede dall’inizio della liquidazione fino alla cessazione dell’attività.

La disposizione precisa che, affinché possa essere contestata la responsabilità dei soci, i beni devono essere loro assegnati:

1)       dagli amministratori, se la cessione avviene nella prima frazione temporale. Il riferimento agli amministratori è ovvio, perché  in questa fase della vita sociale sono loro i rappresentanti dell’ente.

2)       dai liquidatori, se questa viene eseguita nella seconda frazione temporale.

Anche qui il riferimento dovrebbe essere ovvio perché la società deve essere formalmente in liquidazione.

Questa conclusione si ricaverebbe considerando il riferimento testuale alla “messa in liquidazione” utilizzata per delimitare il periodo esaminato al precedente punto 1). Tuttavia il comma 2, dell’articolo 36, fa riferimento ad una estensione delle responsabilità dei liquidatori agli amministratori in carica all’atto dello scioglimento della società o dell’ente se non si sia provveduto alla nomina dei liquidatori.

Sorge, quindi il dubbio se il termine liquidatori sia da considerarsi in termini formali o sostanziali.

Per dirimerlo bisogna valorizzare il comma 4 della disposizione in questione, che estende agli amministratori, che abbiano compiuto nel corso degli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla “messa in liquidazione” operazioni di liquidazione, le responsabilità previste per i liquidatori.

Come si vede il legislatore fa riferimento alla formale “messa in liquidazione” e intende semplicemente differenziare la responsabilità dell’amministratore <liquidatore di fatto> da quella stabilita dal secondo comma “dell’amministratore in carica all’atto dello scioglimento della società o dell’ente se non si sia provveduto alla nomina dei liquidatori

Una ulteriore differenza tra la responsabilità di liquidatori e amministratori e quelle dei soci e associati sta nel fatto che la prima è in proprio, cioè deriva da  una loro condotta  personale che ha trascurato le ragioni dell’erario, indipendentemente dal fatto che ne consegua  un loro arricchimento (situazione, quest’ultima che si potrebbe verificare se, per esempio, essi distraessero le somme dovute al fisco per remunerare la loro opera prestata nei confronti dell’ente o società, caso comunque assorbito dalla maggiore responsabilità alla quale i rappresentanti sono esposti); mentre la responsabilità dei soci non riguarda una loro condotta ma un arricchimento che non sarebbe stato realizzato in assenza della condotta dei rappresentanti.

I soci, comunque, qualcosa hanno ricevuto e la loro responsabilità si limita al valore di quei beni.

L’analisi delle responsabilità dei diversi soggetti coinvolti segnala che i liquidatori - e gli amministratori in carica all’atto dello scioglimento della società o dell’ente se non si sia provveduto alla nomina dei liquidatori - sono responsabili anche per tutti i periodi d’imposta anteriori alla liquidazione, cioè anche per i debiti originatisi in periodi d’imposta in cui potevano non essere in carica (vi sono casi in cui gli amministratori stessi vengono nominati liquidatori dell’ente); mentre per i soci la responsabilità può emergere solo limitatamente ad alcuni periodi d’imposta, sopra segnalati .

Invece le responsabilità di amministratori e soci si sovrappongono solo negli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione.

Ma né la misura del danno cagionato al fisco né il titolo dal quale risulta la loro responsabilità, distrazione di beni senza tener conto della graduazione dei crediti da una parte indebito arricchimento dall’altra, coincidono.

Tuttavia rispondono entrambi nei limiti dell’importo del debito d’imposta rimasto insoluto.

Verrebbe da pensare che i beni assegnati ai soci, in quanto distratti dal pagamento di debiti sociali, dovrebbero (astrattamente) essere restituiti alla società perché vincolati al pagamento dei suoi debiti.

E’ principio generale quello per cui alla ripartizione dei conferimenti si procede solo dopo la soddisfazione di tutti i debiti sociali.

Quindi si dovrebbe definire prioritaria l’esazione delle imposte in capo ai soci, perché si sono appropriati dei beni della società (magari in buona fede).

Chiaramente, secondo il principio della pregiudizialità-dipendenza che prima abbiamo esposto, questo passaggio richiede che il debito della società sia rimasto insoddisfatto.

La norma, infatti, dispone tale passaggio per tutti i soggetti da essa elencati.

Abbiamo detto che il rapporto tra le responsabilità di amministratori e soci si intreccia nei due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione; tuttavia la responsabilità dei primi è testualmente subordinata all’effettuazione delle operazioni di liquidazione mentre la lettura della parte normativa che dispone sulla responsabilità dei secondi non fa riferimento al tipo di operazioni dalle quali viene originata l’assegnazione.

La distinzione potrebbe sembrare ovvia se si pensa, per esempio, che il risultato civilistico può essere conseguenza sia di operazioni ordinarie che di liquidazione;  infatti il periodo d’imposta precedente la liquidazione e il primo di liquidazione ricadono nello stesso esercizio sociale e l’eventuale utile che si evidenzia è formato indistintamente da operazioni ordinarie e da operazioni liquidatorie.

Tuttavia credo che l’intento del legislatore sia stato quello di introdurre una presunzione di carattere più ampio, valevole in un determinato e logico intorno di tempo, che faccia ritenere possibile il compimento di operazioni che, anche se non proprio definibili ed identificabili come operazioni di sola e mera liquidazione, possano essere state compiute in mezzo a quelle di ordinaria gestione.

Se la contestazione all’amministratore, ai sensi del quinto comma dell’articolo 36, deve contenere anche la dimostrazione delle avvenute operazioni di liquidazione, come detto non sempre nettamente identificabili, la contestazione al socio riguarda solo l’assegnazione ricevuta dall’amministratore in un determinato arco temporale e in compresenza di un debito tributario Ires.

In questo modo il legislatore ha tutelato massimamente gli interessi erariali  contemperando la diversa responsabilità, in proprio dell’amministratore (più gravosa), e per quanto ricevuto, dal socio.

Rendendo tuttavia la prima azione più “debole”, perché il fisco deve dimostrare il compimento di operazioni di liquidazione e la seconda più “forte”, perché basata su una presunzione assoluta.

Si puntualizza che la responsabilità dell’amministratore è sì subordinata al compimento delle operazioni di liquidazione nell’arco temporale dei due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione ma comporta l’obbligo di pagare le imposte dovute dalla società per tutti i periodi anteriori a tale attività.

Non è, quindi, limitata ai debiti Ires originati nei due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione, ma è originata dal fatto che siano state compiute operazioni di liquidazione in quell’arco temporale.

Insomma quando comincia un’attività di liquidazione, sia essa nei due anni antecedenti alla formale messa in liquidazione che dopo, scatta l’obbligo dei rappresentanti di privilegiare il pagamento dei crediti Ires.

Invece per i soci la presenza di debiti tributari insoddisfatti in tali periodi e la compresenza di assegnazioni a loro destinate ne attiverà la responsabilità, nei limiti di quanto ricevuto.

 

9) Estensione analogica ad altre imposte

Una curiosità che spesso sorge nell’analisi di questo tipo di disposizioni è se la disciplina qui contenuta sia estendibile ad altre imposte oppure agli interessi.

Ci stiamo riferendo alla possibilità di applicare l’articolo 12 delle preleggi, rubricato quale “Interpretazione della legge”, a casi simili.

Questo articolo permette di espandere l’applicazione della disposizione a casi non previsti.

Se scorriamo il testo dell’articolo 36 ci accorgiamo che la disposizione in esame si applica espressamente per l’evasione dell’Ires e non si scorgono altri riferimenti letterali ad imposte diverse.

Come è noto in diritto tributario la dottrina prevalente  tende ad escludere l’interpretazione analogica nell’ambito del diritto sostanziale, quello cioè che individua il presupposto impositivo.

Infatti se è vero che l’individuazione dell’indice di capacità contributiva, ai sensi dell’articolo 53 della Costituzione, può essere individuato liberamente dal legislatore - essendo questi limitato solo dal parametro anch’esso di rango Costituzionale della ragionevolezza - è anche vero che  l’articolo 23 della Costituzione richiede un provvedimento   legislativo che disciplini con sufficienza i soggetti passivi, il presupposto d’imposta, i criteri di determinazione dell’imponibile e le aliquote da applicare.

Riportiamo il testo dell’articolo 23 per chiarezza:

Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.

Questo articolo pone un divieto alle prestazioni patrimoniali non imposte dalla legge; secondo alcuni autori vi sarebbe una conseguente impossibilità ad estendere l’imposizione a fattispecie non direttamente regolate dalla legge.

Il limite così individuato, seppur non incontestato in dottrina, riguarda comunque il solo diritto sostanziale.

In tema di riscossione, invece, tale divieto non opera e si può tentare la ricostruzione analogica.

Per farlo bisogna però seguire le altre regole generali dell’ordinamento.

Una tra queste è rappresentata dall’articolo 14 delle preleggi che stabilisce il seguente principio:

Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in essi considerati”.

Bisogna rilevare che la norma in esame, tranne la parte in cui disciplina la responsabilità di soci e associati (N.B.), ha carattere sanzionatorio e non permetterebbe l’applicazione del procedimento analogico.

Inoltre questa disposizione risulta essere applicabile ai soli casi ivi disciplinati e non ha carattere generale.

In dottrina tale norma viene definita a fattispecie esclusiva; per M.S. Giannini, “L’interpretazione e l’integrazione delle leggi”, in “Riv. Dir. Fin.”, 1941, pag. 124, sono tali le “norme, che riflettendo situazioni di fatto ben determinate, e contenendone una qualificazione caratteristica ed esclusiva ed una determinazione astratta di effetti giuridici altrettanto tipica ed esclusiva, non possono per loro natura estendersi a fatti diversi”.

Si configurano in questa gli estremi della legge eccezionale.

Insomma anche per questa via non si potrebbe sostenere la possibilità di espansione della disposizione ad altri casi.

Quindi,  per gli interessi maturati sul debito d’imposta  questa non potrebbe essere utilizzata per garantirne il recupero.

La riprova è in altri articoli 32, 33, 34 e 35 dello stesso D.P.R. n. 602/1973: qui  l’estensione della responsabilità dei soggetti ivi menzionati è espressamente applicabile agli interessi.

Per quanto riguarda le altre imposte, il percorso interpretativo che conduce al divieto di analogia poteva essere utilizzato  fino al 1999.

Infatti, il D.Lgs. del 26 febbraio 1999, n. 46, all’articolo 19 dispone che: “Le disposizioni previste dagli articoli … omissis … 36 … omissis … del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, si applicano alle sole imposte sui redditi”.

Questa disposizione limita espressamente la portata dell’articolo 36 alle imposte sui redditi e chiarisce definitivamente la impossibilità di applicazione ad altre imposte.

 

10) La graduazione dei crediti

La responsabilità di amministratori e liquidatori si integra

se soddisfano crediti di ordine inferiore a quelli tributari o assegnano beni ai soci o associati senza avere prima soddisfatto i crediti tributari. Tale responsabilità è commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione di crediti

Anche quest’aspetto della responsabilità si aggancia a disposizioni civili ed è una ulteriore conferma degli aspetti sostanzialmente civili di questa norma.

Riguardo all’originarsi della responsabilità in proprio di amministratori e liquidatori bisogna ora indagare sul significato di “graduazione dei crediti”, perché è l’infrazione a tale regola che determina le gravi conseguenze sopra evidenziate.

Il legislatore civile ha inteso stabilire una regola di parità tra i creditori, prevedendo che essi abbiano uguale diritto sul patrimonio del comune debitore.

A questa regola non soggiacciono i crediti per i quali vi siano particolari cause di prelazione; queste, stabilite dall’articolo 2471 del codice civile, sono: i privilegi, il pegno e l’ipoteca.

I crediti assistiti da privilegio devono quindi essere soddisfatti in via prioritaria rispetto a quelli definiti chirografari, cioè sforniti di alcuna causa di prelazione.

Non solo vi sono queste cause di prelazione, ma, all’interno della categoria dei crediti privilegiati, vi è un ordine che stabilisce la “graduatoria” di soddisfacimento.

Da qui l’espressione “graduazione del credito”.

In altre parole, a seconda del tipo di credito privilegiato vi sono crediti che hanno la priorità rispetto ad altri e vengono quindi soddisfatti per primi.

Per verificare l’ordine di soddisfabilità, e quindi comprendere la posizione occupata dal credito tributario, occorre riferirsi agli articoli 2777 e seguenti del codice civile.

Ecco che se il liquidatore o l’amministratore soddisfano crediti privilegiati di ordine superiore a quello tributario non incorrono nella violazione prevista dall’articolo 36 qui in esame, avendo adempiuto agli obblighi imposti dalla legge.

Passiamo ora a definire il criterio di commisurazione della responsabilità.

E’ lo stesso articolo 36, primo comma, a disporre che questa sia commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione di crediti.

Questa limitazione di responsabilità è possibile derogando al principio generale stabilito dall’articolo 2740 del codice civile, che così dispone:

Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”.

E’, infatti, lo stesso comma 2 ad abilitare la possibilità di deroga:

Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge”.

Tornando ad analizzare il momento in cui si origina la responsabilità, si deve comprendere quando si soddisfano crediti di ordine inferiore a quelli tributari.

Qui si deve chiarire che bisogna fare  sempre riferimento alle disposizione civili citate sopra sull’ordine dei privilegi; tuttavia, per i creditori che occupano la stessa posizione nell’ordine di preferenza stabilito dal legislatore si applica il criterio proporzionale, se non è possibile l’integrale soddisfazione di tutti.

Questo principio è stabilito dall’articolo 2782 del codice civile.

 

 

11) La società cessata, ovvero facciamo funzionare i principi qui affermati

Se accogliamo l’interpretazione qui proposta molte delle questioni che ancora sembrano controverse trovano una semplice soluzione, in armonia con le diverse “nature” espresse dall’articolo in esame.

Tra queste ancora irrisolta appare la questione della società, o dell’ente, cessati.

La questione è stata affrontata dalla sentenza della Corte di Cassazione  del  17 giugno 2002 n. 8685.

Qui si afferma che:

l’azione di responsabilità nei confronti del liquidatore di una società con riguardo ai crediti per imposta sul reddito delle persone giuridiche – i cui presupposti si siano verificati a carico della stessa, ancorché accertati successivamente, - che l’art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973 (al pari dell’abrogato art. 265 del D.P.R. n. 645 del 1958) riconosce all’amministrazione finanziaria, nel caso in cui il liquidatore (o l’amministratore, nella fattispecie prefigurata dal comma 4 dello stesso art. 36) abbia esaurito le disponibilità della liquidazione senza provvedere al loro pagamento, è esercitatile alla duplice condizione che i ruoli, in cui siano iscritti i tributi a carico della società, possano essere posti in riscossione e che sia acquisita legale certezza che i tributi medesimi non siano stati soddisfatti con le attività di liquidazione; che, nella specie, costituiscono, invece, circostanze incontestate tra le parti quelle secondo cui le attività di liquidazione addebitate all’intimato sono state compiute negli anni 1978 e 1979, e secondo cui i debiti tributari, di cui si chiede il pagamento ex art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973, sono stati iscritti nei ruoli del 1985 e del 1990; sicchè difettano le condizioni oggettive per l’esperibilità dell’azione di responsabilità, posto che l’obbligazione legale prevista dalla più volte citata disposizione insorge allorquando ricorrono gli elementi oggettivi della sussistenza di attività nel patrimonio della società in liquidazione (o liquidata di fatto) e dalla distrazione di tali attività a fini diversi dal pagamento delle imposte dovute, vale a dire di imposte che abbiano acquisito i caratteri della certezza e della definitività … omissis”.

 

Il riferimento alla duplice condizione, l’esistenza dei ruoli posti in riscossione a carico della società e la legale certezza che i tributi ivi iscritti non sono stati soddisfatti con le attività della liquidazione non è presupposto della responsabilità dell’amministratore poiché questa si origina quando il liquidatore non abbia adempiuto all’obbligazione tributaria distraendo attività in violazione dell’ordine di graduazione dei crediti.

La lettura dell’articolo 36, come dimostrato, non fa alcun riferimento alle imposte liquidate, come invece stabilisce l’articolo 14 del D.P.R. n. 602/1973 quando specifica quali iscrizioni a ruolo si possono fare a titolo definitivo.

L’articolo 36 fa riferimento alle imposte dovute e queste si originano all’atto del verificarsi dei presupposti dell’obbligazione tributaria e non con il ruolo.

 Il diverso momento dell’esistenza dei ruoli posti in riscossione a carico della società e la legale certezza che i tributi ivi iscritti non sono stati soddisfatti con le attività sono il presupposto per procedere all’emissione dell’avviso di accertamento delle responsabilità in capo all’obbligato dipendente; ma la responsabilità è per l’inadempimento che si è verificato quando la società era ancora in vita, nel momento della sua liquidazione, ovvero nell’istante in cui si sono pagati crediti di ordine inferiore a quello tributario o assegnati beni ai soci e associati.

E’ questa la lettura che si deve dare ai commi 5 e 6, dell’articolo 36, come dimostrato in questo lavoro.

Altrimenti, se si ritenesse vera la tesi della Cassazione vi sarebbe una facile via di fuga al pagamento delle imposte dovute dalla società.

L’evasione da riscossione verrebbe legalizzata e chiunque potrebbe farla franca realizzando un utile fiscale importante e avendo l’accortezza di mettere in liquidazione la società e velocemente cancellarla, di modo che l’iscrizione a ruolo non possa giungere nelle mani del liquidatore che dopo la cessazione.

Non è questa la ratio dell’articolo 36 né si può così interpretare sistematicamente il concetto di “debito tributario”.

 

12) Conclusioni

Dell’articolo 36 si è dimostrata la sua vocazione civilistica e le innovative responsabilità a cui vanno incontro i vari soggetti che ruotano intorno agli enti e alle società.

L’innovazione sta nella differenziazione di questa disposizione rispetto alle altre che dispongono della responsabilità.

Proprio questo aspetto ha messo in crisi molti studiosi che, di fronte ad una nuova costruzione giuridica, non sono riusciti immediatamente a coglierne la sua specificità.

L’abitudine dei tributaristi era quella di cimentarsi con figure quali quella del responsabile d’imposta, ma questa nuova disposizione mal si attaglia a quella, sia per il carattere sanzionatorio che per l’impossibilità di far valere la rivalsa.

Gli interessanti intrecci con la normativa civile hanno anche permesso di evidenziare che in qualche caso la scelta di spostare l’ambito delle responsabilità nel settore tributario è stato determinato dalla snellezza del procedimento.

Si è, inoltre, spiegato il motivo per cui non si può ricorrere all’istituto in esame per fornire adeguata tutela alla riscossione di imposte diverse.

Non lo consente il ricorso all’analogia, posto che questa norma ha carattere eccezionale, né la specifica previsione posta dal D.Lgs. n. 46/1999.

Gli aspetti più controversi sono quelli affrontati in questo lavoro e in ogni passaggio si è cercato di offrire le diverse  interpretazioni fornite dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ove rintracciabili, accettandole o rifiutandole in forma critica senza mai adagiarsi su concetti posti da altri ma, quando condivisi, fornendo una nuova angolazione interpretativa, corroborante la prima.

Insomma si è cercato qui di costruire un percorso proprio, senza la ricerca dell’originalità a tutti i costi ma nell’intento di conferire l’equilibrio che la sensibilità di chi scrive sente sia necessario alla norma.

Vedremo se la giurisprudenza che affronterà le future controversie riscossive, originate dall’articolo in questione, dimostrerà di condividere questa impostazione o se continueranno a prevalere le attuali tendenze.

Comunque sia in qualche modo bisognerà indicare ai giudici che vi è irragionevolezza nelle interpretazioni che da una parte inchiodano il liquidatore alla “responsabilità oggettiva”,  mentre dall’altra gli consentono di farla franca perché non ha ricevuto il ruolo prima della cessazione dell’ente.

La buona interpretazione, è risaputo, sta nell’equilibrare situazioni contrapposte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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