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Da “Corriere Tributario” n. 26/2009

 

  

L’estinzione della società “disattiva” la tutela dell’Erario per l’Ires non pagata

 

 

 

Di Alberto Buscema

Dottore Commercialista in Padova

 

Introduzione

 

La riforma del diritto societario ha messo in crisi la sintonia che si era stabilita tra le disposizioni del vecchio art. 2456 c.c. e quelle dell’art. 36 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602. Il perfetto coordinamento si è incrinato per effetto della vigente impostazione voluta dal legislatore che ha espressamente regolamentato gli effetti causati dalla cancellazione delle società dal Registro delle imprese. Mentre prima della citata riforma la giurisprudenza riteneva che le società di capitali si potevano considerare estinte solo quando tutti i debiti venivano onorati, ora la legge stabilisce espressamente, senza lasciare alcuno spazio all’interpretazione, che l’estinzione è immediata conseguenza della cancellazione. Quindi, per i debiti impagati, è prevista solo la residua responsabilità di soci e liquidatori.

Questo effetto, stabilito dall’art. 2495 c.c., si concilia male con le disposizioni del citato art. 36 del D.P.R. n. 602/1973 e conduce ad una parziale disattivazione delle sue norme sulla responsabilità sussidiaria dei rappresentanti societari (liquidatori e amministratori). Si vedrà che l’astratto collegamento tra le due disposizioni viene spezzato, perlomeno in questa fase della cd. morte societaria, causando qualche problema interpretativo.

I diversi ambiti applicativi delle discipline

La cessazione della società che non abbia correttamente assolto i propri debiti IRES consente l’applicazione di due fondamentali disposizioni:

- l’art. 2495 c.c., per quanto riguarda generalmente i debiti residui della società di qualsiasi natura: in particolare, tra i debitori potrà risultare l’Erario per le somme a titolo d’IRES;

- l’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, per le responsabilità di amministratori, liquidatori e soci derivanti dal mancato assolvimento dell’obbligazione tributaria della società avente ad oggetto l’IRES.

Stabilendo che “dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi”, la norma di cui all’art. 2495 c.c. consente all’Amministrazione finanziaria di esigere il credito (d’imposta) vantato dallo Stato, per l’IRES, alla stessa stregua di qualunque altro soggetto. Certo, essendo l’attività amministrativa retta da provvedimenti, l’Erario dovrà agire tramite notifica dell’avviso di accertamento ai soggetti indicati dalla norma, nei limiti da questa previsti. I limiti sono rappresentati, per i soggetti-soci, da quanto riscosso in base al bilancio finale di liquidazione e, per i soggetti-liquidatori, dall’emersione della loro colpevolezza per il mancato pagamento del debito.

Quindi, sottolineando che si sta trattando esclusivamente dell’obbligazione tributaria che ha ad oggetto l’IRES, la norma civile disciplina le responsabilità riguardanti il rapporto d’imposta della società.

L’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973 disciplina, invece, sia le responsabilità “in proprio” di amministratori e liquidatori, che hanno compromesso l’adempimento dell’obbligazione pur avendo le risorse necessarie per farlo, sia le responsabilità dei soci per le imposte dovute dalla società, nei limiti di quanto ricevuto.

Insomma, ai fini IRES, la disposizione civile riguarda la successione nel debito d’imposta; quella dell’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973 ha invece natura “ibrida”: si sovrappone a quella civile riguardante il debito d’imposta, quando si riferisce ai soci, mentre ha natura sanzionatoria - stabilendo il risarcimento dei danni - quando si riferisce ai liquidatori e agli amministratori.

La responsabilità dei rappresentanti e il consolidamento del debito d’imposta

La responsabilità degli amministratori e dei liquidatori per l’IRES impagata, pur essendo posta da norme di carattere tributario, è di natura civilistica e comporta il risarcimento del danno causato da questi soggetti all’Erario.

Vi è un vincolo che lega l’obbligazione tributaria a carico della società alle responsabilità del soggetto, liquidatore o amministratore, che viola le disposizioni stabilite dall’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973 sulla ripartizione dell’attivo.

L’obbligazione risarcitoria dipende in qualche modo dall’esistenza di un debito dell’ente rappresentato, non adempiuto dal rappresentante.

E’ evidente che non vi potrebbe essere alcuna responsabilità del liquidatore se non venisse ad esistenza il debito tributario del soggetto rappresentato.

Questo viene (formalmente) ad esistere nel momento in cui viene notificato all’ente l’atto di accertamento.

La responsabilità di cui si tratta non coinvolge in alcun modo nell’obbligazione tributaria i soggetti rappresentanti, perché quest’ultima resta un vincolo a carico dell’ente rappresentato conseguente ad una propria manifestazione di capacità contributiva. Insomma, la responsabilità dell’ente riguarda l’obbligazione tributaria inadempiuta, quella dei rappresentanti ha ad oggetto il danno causato all’Erario per non avere destinato al pagamento delle imposte le ricchezze dell’ente.

I soggetti coinvolti sono quindi vincolati da due diverse forme di responsabilità, originate da diverse fonti dell’obbligazione, pur rilevanti nei confronti dello stesso soggetto creditore, l’Erario.

Il vincolo di dipendenza che lega il rappresentante al rappresentato si origina solo dopo la formazione del ruolo intestato alla società o all’ente, come emerge dalla lettura dell’artt. 36, ultimo comma, il quale richiama l’art. 39, primo comma, dello stesso D.P.R. n. 602/1973.

Ciò dimostra che la declaratoria di responsabilità di liquidatori e amministratori è possibile solo dopo che l’imposta, l’IRES, sia stata iscritta a ruolo.

Ecco quindi il problema: essendo la società estinta, come è possibile che si consolidi la pretesa fiscale in capo alla stessa?

Il “vulnus” normativo

Si è evidenziato all’inizio che la vigente disciplina posta dall’art. 2495 c.c. si riferisce anche all’Erario, creditore della estinta società per l’IRES impagata. Questa impostazione, a differenza della previgente - che impediva la cessazione della società fino all’estinzione di tutti i debiti - comporta la necessità per il Fisco di rivolgersi non più alla società, ormai estinta, ma ai soci e ai liquidatori quali “eredi” della società. E’ in questo senso che si sta consolidando la giurisprudenza (1), quando, interpretando l’art. 2495 c.c., sostiene che si determina una successione ex lege dei soci e dei liquidatori nei rapporti della società, in analogia a quanto dispone l’art. 303, comma 2, c.p.c.

Ecco che, cessata la società, il Fisco ha di fronte a sé due possibilità:

1) notificare l’avviso di accertamento ai soci, nel limite di quanto tali soggetti hanno riscosso in base al bilancio finale (solo se hanno ricevuto qualcosa);

2) notificare al liquidatore l’avviso di accertamento, solo se si prova che c’è stata sua colpa (art. 2495 c.c.).

Qualche puntualizzazione si rende necessaria.

Riguardo al punto 1), sembra che non sia possibile notificare ai soci un avviso di accertamento se questi non hanno riscosso alcunché in base al bilancio finale. Non si verificherebbe infatti alcuna successione di questi soggetti, nel caso in esame. Solo la riscossione di somme in base al bilancio finale permetterebbe la notifica dell’atto tributario. Questo atto deve però veicolare una pretesa creditoria nei limiti di quanto riscosso dai soci. In altre parole, non sembra possibile, in base alla lettera della norma e alla sua ratio, che possa transitare e consolidarsi nella sfera giuridica dei soci, a titolo “successorio”, la pretesa impositiva vantata nei confronti della società per somme superiori a quanto da essi riscosso in base al bilancio finale.

Se si condivide tale impostazione, risulta inapplicabile, limitatamente alla specifica fase dell’estinzione societaria, gran parte dell’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973.

Infatti, completando l’analisi delle due possibilità di recupero concesse al Fisco:

a) se non c’è stata colpa del liquidatore, nulla sarà dovuto da nessuno (salvo quanto si dirà fra poco), perché l’obbligazione principale (quella tributaria) non può sorgere; quindi non sorgerà nemmeno quella dipendente. Quindi, gli amministratori che hanno compiuto atti di liquidazione nei due esercizi anteriori alla formale messa in liquidazione (ex art. 36 del D.P.R. n. 602/1973) saranno al riparo, così come eventuali altri liquidatori.

L’obbligazione potrebbe astrattamente sorgere nel limite di quanto hanno ricevuto i soci in base al bilancio finale di liquidazione: tuttavia questa disposizione lascia troppa discrezionalità e risulta facilmente eludibile, quindi agevolmente disapplicabile (2).

b) Se c’è stata colpa dei liquidatori questi saranno obbligati in vece della società, quindi non “in proprio” (3).

Un particolarità procedurale è stabilita per le somme richiedibili ai soci non in base all’art. 2495 c.c., riscosse cioè in base al bilancio finale di liquidazione, ma in base all’art. 36, terzo e quinto comma, del D.P.R. n. 602/1973, cioè per i valori ricevuti sia negli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla (formale) messa in liquidazione che durante la liquidazione stessa. Questi sono i valori relativamente ai quali potrebbe sussistere un ulteriore fenomeno successorio, questa volta regolamentato dalla norma speciale.

Limitatamente a questa ipotesi, non si può ritenere di essere innanzi ad un fenomeno meramente successorio, cioè che l’obbligazione tributaria si trasmetta de plano dalla società ai soci. La norma regolamenta una responsabilità dipendente, cioè una forma di responsabilità che si origina solo se riesce a originarsi quella principale. E’ la lettura dell’art. 36, sesto comma, del D.P.R. n. 602/1973 a stabilire che prima si deve consolidare l’obbligazione tributaria in capo alla società, poi si può agire (anche) contro i soci. La prima fase avverrebbe con la notifica del ruolo alla società; solo dopo questo fondamentale passaggio si potrebbero azionare le pretese nei confronti dei soci per quanto hanno ricevuto in base all’art. 36, terzo comma, del D.P.R. n. 602/1973. Quindi si tornerebbe all’ipotesi base: questo tipo di responsabilità, dipendente, si attiverebbe solo se prima si consolida il debito d’imposta della società in base alle disposizioni dell’art. 2495 c.c., quindi se emerge la colpa dei liquidatori o nella misura in cui i soci hanno ricevuto beni o denaro in base al bilancio finale di liquidazione.

Insomma, per procedere al recupero delle somme percepite dai soci, in base alle disposizioni dell’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, si deve prima consolidare l’obbligazione tributaria in capo alla società o ai suoi eredi “civili”, cioè in base all’art. 2495 c.c. Dopodiché è possibile transitare nella sfera patrimoniale dei soci.

Considerazioni conclusive

L’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973 viene quindi, come già detto, in gran parte disattivato, perché i liquidatori formalmente investiti delle operazioni e quelli “di fatto” non saranno più sanzionabili per “responsabilità propria”, cioè quella conseguente alla distrazione di attività sociali in presenza di debiti IRES (se soddisfano crediti di ordine inferiore a quelli tributari o assegnano beni ai soci senza prima avere soddisfatto i crediti tributari). Nei casi citati, il debito IRES dovrà, quindi, essere onorato dai liquidatori, ex art. 2495 c.c., solo se emergerà la loro colpa; gli stessi, una volta onorato il debito, avranno esaurito le loro responsabilità. Insomma, questi soggetti non verranno più coinvolti dal Fisco a titolo di responsabilità per non avere assolto il debito tributario della società pur avendo attivo patrimoniale da impiegare, ma direttamente per quelle imposte. Non quindi a titolo di risarcimento danni, per aver compromesso l’esazione delle imposte societarie, ma quali debitori d’imposta.

Insomma, l’art. 2495 c.c. ha reso superflua gran parte dell’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973.

Questa ricostruzione segna la fine della teoria della responsabilità oggettiva di liquidatori e amministratori, cioè quella che, in base all’interpretazione dell’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, addossava le responsabilità ivi disciplinate (“per fatto proprio”) indipendentemente dal requisito della colpa (4).

Infatti è ora propedeutica l’analisi della colpa del liquidatore (ex art. 2495 c.c.): se risulterà, il liquidatore riceverà l’avviso di accertamento delle imposte sociali e dovrà onorarlo.

Se invece la colpa non verrà rilevata e i soci avranno riscosso somme in base al bilancio finale, l’avviso di accertamento, nel limite del riscosso, si potrà notificare solo a questi ultimi.

Ma quest’ultima obbligazione è facilmente gestibile, nel senso che con un po’ di accortezza può non sorgere mai. E’ insomma un vulnus della norma.

Ecco come l’art. 2495 c.c. ha parzialmente demolito l’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973.

Ovviamente solo nella fase riscossiva successiva alla cancellazione della società.

 

 

 

1 Cfr. Cass., 28 agosto 2006, n. 18618. Una interessante sintesi del panorama giurisprudenziale è offerta da Trib. Modena, Ord. 17 luglio 2008:

“- “dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 6/2003 sulla riforma organica della disciplina delle società di capitali e delle società cooperative non si giustifica più la pregressa opinione, secondo cui la cancellazione della società dal Registro delle imprese non ne avrebbe determinato l’estinzione (verificandosi questa soltanto quando fossero stati liquidati tutti i rapporti giuridici che ad essa facevano capo). Infatti, il nuovo testo dell’art. 2495, secondo comma, c.c. antepone al vecchio testo (del corrispondente originario art. 2456 c.c.), che prevede le azioni dei creditori insoddisfatti nei confronti di soci e liquidatori, la proposizione “ferma restando l’estinzione della società”. In tal modo il legislatore della riforma ha chiaramente manifestato la volontà di stabilire che la cancellazione produce l’effetto costitutivo della estinzione irreversibile della società anche in presenza di crediti insoddisfatti e di rapporti di altro tipo non definiti. Tale volontà è implicitamente confermata dalla previsione che i creditori insoddisfatti possono, entro un anno dalla cancellazione, notificare presso l’ultima sede della società la domanda proposta nei confronti di soci e liquidatori. Si tratta di un’agevolazione che riproduce esattamente quella prevista dall’art. 303, comma 2, c.p.c. per la notifica della riassunzione agli eredi della parte defunta (Corte app. Milano, 5 dicembre 2007)”;

- “ai sensi del nuovo testo dell’art. 2495 c.c., la cancellazione della società dal Registro delle imprese produce l’effetto costitutivo della estinzione irreversibile della società anche in presenza di crediti insoddisfatti e di rapporti di altro tipo non definiti. In particolare, anche la società che si cancelli in corso di giudizio si estingue con conseguente carenza di legittimazione del liquidatore a far valere, dopo suddetta cancellazione, crediti di pertinenza della società (Corte app. Milano, 20 novembre 2007)”;

- “il nuovo testo dell’art. 2495 c.c. stabilisce in modo inequivoco che la cancellazione della società (nella specie, una s.r.l.) dal Registro delle imprese ne comporta l’estinzione. È quindi superato il precedente orientamento secondo cui l’effetto estintivo della società si verificava soltanto con la definizione di tutti i rapporti pendenti. Di conseguenza, i creditori insoddisfatti possono agire nei confronti degli ex soci nei limiti di quanto da essi ottenuto a seguito della liquidazione, o contro i liquidatori se il mancato adempimento dipende da colpa di costoro” (Trib. Milano, 24 gennaio 2007);

- osservato che la Suprema Corte di cassazione aveva già anticipato la giurisprudenza di merito appena richiamata affermando che “l’iscrizione nel Registro delle imprese della cancellazione di una società di capitali ne produce l’estinzione, con effetto costitutivo irreversibile, anche in presenza di crediti insoddisfatti e di rapporti di altro tipo non definiti: il principio, che emerge dalla legge di riforma, concerne non la cancellazione in sé, bensì i suoi effetti, e trova applicazione anche alle cancellazioni già iscritte in precedenza” (Cass., n. 18618 del 2006, cit.);

- osservato che la volontà del legislatore nel senso appena indicato sembra implicitamente confermata dalla previsione che i creditori insoddisfatti possono, entro un anno dalla cancellazione, notificare presso l’ultima sede della società la domanda proposta nei confronti di soci e liquidatori; si tratta, infatti, di una agevolazione che riproduce esattamente quella prevista dall’art. 303, secondo comma, c.p.c. per la notifica della riassunzione agli eredi della parte defunta;

- osservato che la disposizione in questione, entrata in vigore a gennaio 2004, trova applicazione anche alle cancellazioni già iscritte nel Registro delle imprese. Dall’esame del nuovo testo dell’art. 2495 c.c. emerge chiaramente che la nuova disposizione non ha disciplinato le condizioni per la cancellazione della società, che presuppone sempre la liquidazione e l’approvazione del relativo bilancio finale, ma i soli effetti della cancellazione. La nuova disciplina, pertanto, trova applicazione retroattivamente con l’attribuzione ex nunc di effetti nuovi a fatti pregressi (Cass. n. 18618 del 2006, cit.).

Applicando tale orientamento al caso sottoposto alla sua attenzione, la Corte di cassazione ha ritenuto che la cancellazione dell’appellante dal Registro delle imprese avesse determinato, insieme all’estinzione dell’ente, la carenza di legittimazione del liquidatore a far valere, dopo la cancellazione, crediti di pertinenza della società”.

2 Inoltre, ammesso che i soci abbiano ricevuto delle somme, la responsabilità sussidiaria dei rappresentanti, posta dall’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, emergerebbe solo se i soci non avessero beni propri e, quindi, l’azione del Fisco risultasse inefficace. Insomma, ci sono moltissime variabili da superare prima di poter chiamare in causa i rappresentanti.

3 Si ribadisce che è l’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973 a stabilire tale responsabilità “in proprio”.

4 In base a questa teoria, il debitore, per andare esente da responsabilità, deve provare che l’impossibilità sopravvenuta della prestazione è dovuta a causa non a lui imputabile. Quindi non rileva la diligenza della condotta. Era, per la verità, una posizione che poteva essere sostenuta solo inquadrando la responsabilità de qua quale riconducibile all’art. 64 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

 

 

 

 

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