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Da “Il Fisco” n. 16/2010

 

  

Comm. Trib. Prov. Vicenza, nn. 37, 38 e 39 del 18 febbraio 2010

L’efficacia probatoria delle presunzioni OMI

 

Di Alberto Buscema

Dottore Commercialista in Padova

Introduzione

Le sentenze commentate sono state oggetto di particolare attenzione da parte dei quotidiani economici (si tratta di Italia Oggi, pagg. 1 e 22 e de Il Sole 24 Ore pag. 31, entrambi del 31 marzo 2010), dopo che la Direzione Regionale delle Entrate del Veneto ha diffuso la notizia delle innovative decisioni pro-fisco. E’ comprensibile che la parte alla quale il giudizio è stato favorevole abbia l’interesse di diffondere ed esaltare principi che favorirebbero le casse erariali; questi, tuttavia, qualora confermati, sconvolgerebbe l'assetto probatorio, permettendo di fare della presunzione Omi, abbinata all’importo mutuato  dall’acquirente, una prova che condurrebbe all’emanazione di accertamenti incontestabili perché capaci di resistere a qualsiasi controprova proveniente dalle parti interessate dalla compravendita immobiliare. Secondo le sentenze, alla presunzione legale relativa sul valore normale, abrogata per sospetta illegittimità, subentrerebbe la presunzione qualificata che diventerebbe  assoluta e perciò sfornita di controprova. Come è noto la formulazione di presunzioni assolute è contraria ai principi Costituzionali ed è quindi inammissibile.

Questa è la conclusione che si ritrae dalle sentenze citate in epigrafe, tra  le prime a decidere sulla validità di tali prove presuntive,  asseritamene dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, alle quali il contribuente aveva opposto la regolarità delle transazioni effettuate producendo prove, anche documentali, considerate, unanimemente dalla dottrina, efficaci nel superare la presunzione.

I fatti

Le sentenze in esame sono state occasionate dall’impugnazione di alcuni avvisi di accertamento, notificati prima dell’abrogazione delle presunzioni legali Omi, che avevano ad oggetto operazioni di compravendita immobiliare effettuate anteriormente all’ introduzione della normativa sul valore normale e dei valori dell’Omi; la rettifica è stata effettuata utilizzando congiuntamente le stime Omi e l’importo delle somme mutuate dagli acquirenti, ritenendo che siano presunzioni “avvalorate da quanto disposto dal D.L. 223/2006, art. 35, comma 3”.

La  Guardia di Finanza, durante i procedimenti accertativi, aveva convocato presso i propri uffici gli acquirenti delle unità immobiliari ad uso abitativo e aveva chiesto loro quale destinazione avesse avuto l’importo chiesto a mutuo all’istituto di credito. Gli acquirenti avevano dichiarato a verbale che gli importi eccedenti il corrispettivo evidenziato nel rogito erano stati destinati a mobilio  e altri oneri accessori all’acquisto. Inoltre la Guardia di Finanza aveva richiesto di produrre i preliminari di compravendita, dall’esame dei quali non era emersa alcuna differenza con  il corrispettivo dichiarato nel definitivo; sotto questo profilo, infatti, non era stato mosso alcun rilievo.

Nel giudizio, il ricorrente, preliminarmente eccepiva l’intervenuta abrogazione della normativa sul valore normale; nel merito, evidenziava, tra l'altro, che l'avviso di accertamento applicava le stime Omi anche ai sottotetti, parti dell’edificio che non possono essere abitate e, quindi, non correttamente colte e  valorizzate da tali coefficienti.

La normativa di riferimento

Per comprendere se le sentenze siano giunte a conclusioni condivisibili, si deve ripercorrere l’evoluzione della normativa di riferimento e analizzare i principi sulla formazione delle prove nel processo tributario.

Come è noto l’art. 35, commi secondo e terzo, del D.L.  n. 223/2006, avevano dotato l’Amministrazione finanziaria di innovativi poteri di rettifica per contrastare il fenomeno dell’evasione nel settore immobiliare.

In particolare il legislatore era intervenuto incisivamente dotando l’amministrazione finanziaria dello strumento presuntivo in base al quale la prova sull’evasione di materia imponibile, sia ai fini Iva che ai fini delle imposte dirette, si intendeva integrata dal semplice raffronto tra il corrispettivo dichiarato nel rogito notarile e il valore normale.

Quest’ultimo poteva essere desunto dalle rilevazioni dell’Omi integrate da altri criteri.  (si veda in proposito il Provvedimento dell’Agenzia Entrate del 27.7.2007. Tra i criteri di supporto, che corroboravano le stime Omi, si annoveravano le somme prese a mutuo dagli acquirenti.)

Senza dilungarci troppo sui sospetti di illegittimità della norma, relativamente all’Iva - per contrasto con la Direttiva Europea, - la  legge 7 luglio 2009, n. 88, rubricata  “Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria 2008”, abrogava la presunzione legale a favore del fisco in materia di accertamenti immobiliari a valore normale. E ciò, per quanto non necessario, sia ai fini delle imposte sui redditi che dell’Iva.

Restava da verificare quale sorte toccasse alle presunzioni basate sulle stime Omi, ormai depotenziate dal  loro valore di presunzioni legali.

Sulla base del Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 27.7.2007 si sarebbe dovuto argomentare che tali stime avessero  natura di presunzioni semplici.

Ciò era avvalorato dal comma 265 art. 1 della legge 24.12.2007 n. 244.

Su questo punto, le sentenze in commento sembrano anch'esse ritenerle presunzioni semplici, in quanto assumono che la stima Omi diventi prova quando avvalorata dagli importi mutuati, evolvendosi il quadro di riferimento in presunzione grave, precisa e concordante.

I principi stabiliti dalle  sentenze

Le sentenze decidono alcune questioni:

1)      la gravità precisione e concordanza della presunzione quando basata congiuntamente sui valori Omi e sul mutuo erogato agli acquirenti;

2)      la inefficacia delle dichiarazioni rilasciate dagli acquirenti sulla reale destinazione degli importi mutuati, affermazioni corroborate dai preliminari;

3)      la correttezza dell’autorizzazione all’accesso nella sede aziendale, nonostante mancassero le effettive esigenze di verifica sul luogo.

Il cuore delle decisioni è l’affermazione di ritenere  non probanti le dichiarazioni rilasciate dagli acquirenti alla Guardia di Finanza, così motivata: “non possono ritenersi sufficienti le dichiarazioni espresse dagli acquirenti, per evidenti motivi di reciproca convenienza e conseguente scarso valore probatorio delle dichiarazioni da questi effettuate”. 

Si giunge a tale conclusione immotivatamente, senza, cioè, indicare in sentenza la fonte,  l’iter logico giuridico del proprio convincimento.

Giova al lettore ricordare che l’art. 111 della Costituzione impone di motivare tutti i provvedimenti giurisdizionali, affinché sia garantito il diritto di difesa e il controllo sulla eventuale arbitrarietà della sentenza; tale principio è stato recepito, nel processo tributario, tramite l’art. 36, comma 2, punto 4) del D.Lgs. n. 546/1992, nonché l’art. 113 c.p.c, richiamato dall’art. 1, comma 2,  del D.Lgs. n. 546/1992.

Le sentenze, invece, sono perentorie: le dichiarazioni degli acquirenti non servono.  

Tuttavia mai si saprà quale sarebbe la “reciproca convenienza” che inficia il valore probatorio di tali dichiarazioni. Nemmeno si saprà se la valutazione delle prove a favore del contribuente,  consistente in numerosi preliminari stipulati con gli acquirenti e acquisiti dalla Guardia di Finanza, sia stata omessa oppure se anche questi contratti siano stati ritenuti inidonei a contrastare la presunzione formulata dall'Ufficio: la motivazione tralascia di chiarire anche questo aspetto.

La sentenza si limita ad affermare ulteriormente che il ricorrente  non fornisce alcun elemento probatorio contrario”, lasciando presumere che anche i preliminari non siano stati considerati elementi probatori.

In assenza delle motivazioni, pare di capire che le sentenze abbiano considerato privo  di alcun valore probatorio sia i documenti provenienti dal ricorrente che quelli provenienti dai terzi acquirenti, così come le dichiarazioni verbalizzate di questi ultimi, poichè riferiti alle “parti interessate” (il venditore e l'acquirente).

Ma allora, quali elementi ha a disposizione il contribuente per difendersi?

Sembra che non si sia approfondito sufficientemente la ricaduta di tale impostazione sul diritto di difesa e sul principio di capacità contributiva.

I problemi emergenti

Le sentenze, non chiarendo in motivazione le fonti giuridiche delle decisioni, lasciano dunque aperti numerosi interrogativi.

Questi debbono ora essere risolti autonomamente, analizzando i profili probatori riguardanti la fattispecie in esame e valorizzando i contributi interpretativi dati dalla dottrina.

Affrontando  la presunzione di evasione basata sull’importo mutuato dagli acquirenti per l’acquisto dell’immobile, la dottrina si era preoccupata di delineare la corretta portata della norma fornendo una interpretazione ossequiosa dei principi di corretta formazione della prova.

In particolare un autorevole studio del Consiglio Nazionale del Notariato,  Studio n. 152-2006/T,   aveva così esplicitato la predisposizione della prova avversante la presunzione relativa riguardante il mutuo :

“ … è possibile dunque per il contribuente dare la prova che il maggior importo del mutuo contratto, dal cessionario, si giustifica per la necessità di affrontare ulteriori spese oppure per altre ragioni oggettive (si immagini il caso del mutuo ottenuto prima di conoscere l’esatto importo dell’immobile acquistato perché, per esempio, ancora in costruzione).

Da un punto di vista applicativo, potrebbe allora essere utile indicare, nel contratto di compravendita e/o nell’atto di finanziamento, che il mutuo contratto dal cessionario per l’acquisto dell’immobile è solo in parte destinato al finanziamento dello stesso, specificando, eventualmente, i motivi per i quali è stata erogata una somma maggiore.

In questo modo, si potrebbe evitare l’azione accertativa dell’Amministrazione finanziaria o, comunque, precostituire, a livello documentale, le argomentazioni da far valere in sede procedimentale o processuale contro l’eventuale atto di accertamento.

Questo documento interpretativo affermava, quindi, che i contraenti potevano dichiarare già nell’atto di compravendita quale destinazione potesse avere l’importo mutuato dall’acquirente.

(Nota: E ciò innanzitutto al fine di consentire al venditore di venire a conoscenza di fatti che attengono alla sfera giuridica altrui (l’acquirente) idonei a compromettere i suoi interessi economici. Già questo aspetto dimostra l’irragionevolezza della presunzione: il venditore non ha alcun potere di controllo sull’operato dell’acquirente. In particolare:, cosa succede se il compratore: non vuole comunicare l’utilizzo del mutuo? O se non vuole consegnare la documentazione relativa? O se stipula il mutuo senza farlo sapere al venditore? O se non esegue i lavori che il mutuo doveva coprire? O se non ha conservato idonea documentazione? Tali casi dimostrano che la presunzione è irragionevole e  deve essere integrata da altri elementi probatori da parte dell’AF, altrimenti finisce anche per impedire il diritto di difesa (la prova contraria diventa impossibile).

Secondariamente al fine di rendere possibile una difesa, precostituendo una prova a favore del venditore.

Infatti, in assenza di tali accorgimenti, il venditore non sarebbe in grado di ottenere informazioni su come  l’acquirente utilizza il suo libero arbitrio, e quindi nulla potrebbe sapere sugli importi mutuati e della loro destinazione. Compromettendo la sua difesa.

Nel caso deciso dalle sentenze, la destinazione delle somme mutuate eccedenti il corrispettivo di compravendita emergeva dalle dichiarazioni degli acquirenti e dal preliminare.

Non vi è alcuna differenza probatoria - poiché il contenuto e la fonte delle stesse sono le medesime - tra le dichiarazioni rilasciate nell'atto pubblico confezionato dalla Guardia di Finanza e quelle effettuabili nel contratto notarile “definitivo”. Tanto più se corroborate dai contratti preliminari , notoriamente il documento dal quale emerge l'accordo dissimulato.

Ecco che la posizione delle sentenze appare misteriosa, non solo sotto il profilo giuridico ma anche dal semplice punto di vista della logica.

Le sentenze, infine, non hanno preso in considerazione nemmeno la sollevata eccezione che inficia la presunzione che vorrebbe ricostruire il corrispettivo di vendita (fatto ignoto) partendo dall'importo del mutuo (fatto noto). Tale assioma è confutato dalla stessa Agenzia delle Entrate la quale, nelle istruzioni alla dichiarazione dei redditi delle persone fisiche, afferma che gli interessi passivi afferenti il mutuo prima casa sono detraibili “proporzionalmente soltanto all’ammontare del costo dell’immobile comprensivo delle spese notarili e degli oneri accessori”.

Se si applicassero correttamente i principi di buona fede, ribaditi dallo Statuto del Contribuente, e vi fosse sempre una giurisprudenza coraggiosa nell’applicarli, non si vedrebbe mai la stessa Agenzia delle Entrate applicare il principio così com’è o al suo contrario a seconda della sua convenienza.

E’ chiaro, infatti, che le conclusioni delle sentenze sono la copia di quanto prospettato dalla stessa Agenzia nelle sue controdeduzioni.

Insomma, secondo l'Agenzia delle Entrate, il mutuo può avere altre destinazioni se il contribuente deve dedurre gli interessi passivi, limitando così la detrazione a suo favore; viceversa il mutuo non può avere altre destinazioni quando si tratta di  contestare gli importi relativi all’acquisto dell’immobile! (per accertare ulteriori imposte in capo al venditore).

La sentenza non ha, quindi, tenuto in considerazione tale aspetto; nemmeno ha ritenuto idonee le prove  agli atti, senza spiegare quali elementi di “reciproca convenienza” conferiscano “scarso valore probatorio” alle dichiarazioni degli acquirenti.

Per cercare di dare un senso a tali affermazioni dobbiamo analizzare i benefici astrattamente ritraibili dagli acquirenti dichiarando ciò che l'Agenzia ha ritenuto un falso(!), cioè dichiarando che l'importo mutuato eccedente il corrispettivo sia stato destinato a mobilio e altri oneri accessori. Poiché al venditore sono state accertate maggiori Ires, Irap e Iva, l'unica imposta sulla quale potrebbero, astrattamente, esistere  profili di “reciproca” convenienza è l’Iva. Le altre imposte, essendo personali, non presentano tali profili. La disciplina sulla solidarietà nel pagamento dell’Iva tra acquirente e cedente è posta  dall’articolo 60-bis, comma 3-bis, del DPR n. 633/1972 .

Questa norma è stata innestata nel decreto Iva per mezzo della legge 24 dicembre 2007, n. 244, articolo 1, comma 164, ed è entrata in vigore il 1 gennaio 2008.

Non è, quindi, applicabile a fatti antecedenti, come quelli in esame.

Infatti la responsabilità solidale per le violazioni commesse si perfeziona al momento in cui viene stipulato l’atto. Si veda in tal senso lo Studio n. 16-2008/T del Consiglio Nazionale del Notariato.

In ogni caso la norma non è applicabile al caso de quo: infatti essa fa riferimento, letteralmente, ad un corrispettivo diverso da quello “effettivo”. Siccome la responsabilità solidale dell’acquirente ai fini dell’Iva rappresenta un’ipotesi eccezionale, avendo richiesto in passato specifici interventi normativi (rappresentati dall’introduzione dell’art. 60-bis DPR 633/1972 commi 1, 2 e 3- il 3-bis, come visto, è stato aggiunto dopo), l’interpretazione deve essere limitata ai casi tassativamente individuati dal legislatore, in virtù dei canoni interpretativi stabiliti dall’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale.

E’ la stessa Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 8/E del 13 marzo 2009 ad evidenziarlo:

Presupposto per l'applicazione del comma 3-bis in commento e' rappresentato dalla divergenza tra l'importo del corrispettivo indicato nell'atto di cessione e nella relativa fattura, rispetto al corrispettivo effettivamente percepito.

Ai fini della sua applicazione, quindi, il comma 3-bis non assume quale parametro di riferimento il "valore normale"dell'immobile trasferito, a differenza di quanto dispone il precedente comma 2 del medesimo articolo 60-bis.

La differenza e' sostanziale, in quanto, mentre il "valore normale" rappresenta una presunzione legale utilizzabile nell'accertamento ai fini IVA e ai fini delle Imposte sui redditi che si fonda sul "prezzo o corrispettivo mediamente praticato per beni o servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui e' stata effettuata l'operazione o nel tempo e nel luogo piu' prossimi" (articolo 14, terzo comma, del d.P.R. n. 633), il comma 3-bis trova applicazione esclusivamente nell'ipotesi di effettiva divergenza tra l'importo dichiarato e quello percepito.

Ne consegue, con riferimento al quesito in esame, che la responsabilita' solidale di cui al comma 3-bis non trova applicazione in caso di accertamento della maggiore imposta basato sul c.d. "valore normale".

Tale conclusione si fonda su di un'interpretazione letterale e logico-sistematica dell'impianto normativo dettato ai fini IVA, in quanto la responsabilita' solidale dell'acquirente ai fini IVA rappresenta un'ipotesi eccezionale, che va limitata ai casi tassativamente previsti dal Legislatore. Ne consegue, in mancanza di un'espressa previsione normativa, che non e' possibile estendere la responsabilita' solidale dell'acquirente anche al caso in cui la maggiore imposta derivi da un accertamento in base al cd "valore normale".”

Quindi la normativa non è applicabile qualora il valore normale diverga dal corrispettivo dichiarato, poiché la presunzione non rappresenta il corrispettivo “effettivo”.

Ergo, nessun aspetto di reciproca convenienza emerge nel rapporto acquirente-venditore.

 

Anche nel merito, ovvero la contestazione sull'applicazione delle stime Omi ai cd. sottotetti non abitabili,  la valutazione è rimasta nella penna dell’estensore la risposta.

Infine un ultima chiosa.

Il caso in esame, come detto, aveva ad oggetto compravendite effettuate antecedentemente all’entrata in vigore della norma sul valore normale, DL 223/2006, e ai conseguenti valori Omi. Al tempo dei fatti non era ipotizzabile né prevedibile l’introduzione di una tale norma; nemmeno quindi si poteva predisporre una adeguata documentazione difensiva o comunque probatoria. Ciò rende molto difficile fornire una  prova contraria alla pretesa del fisco, compromettendo, già così, il diritto di difesa del contribuente. Questo aspetto dimostra ancor di più che, anche volendo condividere l'assurdo principio sulla reciproca convenienza, già confutato sopra, omettendo di valorizzare la controprova offerta si giungerebbe ad addossare al contribuente la cd. “probatio diabolica” ovvero quella prova impossibile che viene considerata in contrasto con il diritto di difesa stabilito dall’art. 24 della Costituzione.

 Le decisioni, invece, devono essere assunte in modo conforme ai principi costituzionali, i massimi principi del nostro ordinamento L'eliminazione dalle prove delle dichiarazioni degli acquirenti e dei preliminari stipulati, non consente la produzione di altre prove.

Le sentenze, quindi, disattendono immotivatamente il valore probatorio delle dichiarazioni e nulla affermano sui preliminari.  Privando il contribuente del suo diritto di difesa e rendendo la sua capacità contributiva “ineffettiva”.

 Sull’art. 12 comma 1 statuto contribuente

La sentenza affronta anche la portata dell’art. 12, comma 1 dello Statuto del Contribuente.

Il ricorrente aveva eccepito la violazione dell’art. 12, comma 1, della legge n. 212/2000 da parte dell’AF, poiché nella motivazione dell’ordine di servizio della GdF, con la quale i militari hanno acceduto ai locali della sede legale della società ricorrente, non erano indicate quali fossero le “esigenze effettive di indagine e controllo sul luogocondizioni legittimanti l’accesso quando i verificatori si recano, come qui è avvenuto, nei locali destinati ad attività commerciali. 

Né mai si è fatto riferimento a tali esigenze in alcun verbale dei verificatori.

La sussistenza di tali condizioni deve essere valutata in sede di decisione dell’accesso da colui che ha il potere di disporlo, dandone contezza nella lettera d’incarico e autorizzazione all’accesso affinché il contribuente possa verificare la sussistenza delle condizioni che legittimano questo potere invasivo; in tal senso dispone l’art. 7, comma 1, della legge 212/2000: “Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione.”.

La motivazione è un elemento essenziale dell’atto autorizzatorio, atto che assolve a funzioni di garanzia e informazione al soggetto verificato.

Le sentenze impugnate invertono la portata della norma, stabilendo inopinatamente che non sarebbe l’Amministrazione Finanziaria a dover spiegare quali siano le esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo che inducono ad effettuare la verifica presso i locali aziendali, ma sarebbe il contribuente a dover indicare le concrete ragioni sulla carenza di esigenze effettive d’indagine e controllo sul luogo.

Secondo le sentenze la legittimazione è insita nel potere di verifica sostanziale, che, per essere efficace, presuppone l'accesso dei verificatori presso i locali della società.

Così qualsiasi verifica sarebbe legittima, perché alla sua base vi sono esigenze di controllo.

Se questo fosse lo spirito e la ratio della norma ci si dovrebbe interrogare quale senso avrebbe l’art. 12, comma 1, dello Statuto del Contribuente, posto che tutto rimarrebbe come era nella normativa precedente alla sua entrata in vigore.

 

Tale conclusione è, quindi, infondata e sfornita (anche questa) di motivazione, nonchè paradossale, come sopra evidenziato.

E’ la stessa rubrica dell’art. 12 dello Statuto del Contribuente a stabilire che nella norma si tratta dei “Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali”. Si introducono dei diritti che il contribuente non aveva, il diritto a non essere disturbato nella conduzione della sua attività economica se non sussistono particolari ragioni, le “esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo”. La norma dispone che “Tutti gli accessi… sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo”. L’interpretazione letterale, canone ermeneutico indicato dall’art.   12 delle cd. preleggi, impone di concludere che è il soggetto che effettua l’accesso ad avere esigenze di indagine e queste devono essere effettive  e motivate dall’AF, poiché solo lei conosce le proprie esigenze accertative.

E solo lei deve indicare quali sono nell’atto autorizzatorio; questo è il senso dell'art. 7 dello Statuto del Contribuente sulla motivazione degli atti.

In difetto di tali indicazioni l’avviso di accertamento è illegittimo.

Infatti, lo Statuto del Contribuente ha introdotto nel 2000 tale disposizione nelle norme accertative bilanciando gli invasivi poteri istruttori con i diritti dei contribuenti, modulando le verifiche tributarie in maniera più rispettosa dei valori Costituzionali. Ai sensi della nuova legge, le verifiche meramente contabili, come quella attuata nel caso deciso, non possono essere più condotte tramite accesso ai locali della società (poiché incidono negativamente sul normale svolgimento dell’attività economica), ma  devono essere condotte presso l’ufficio dei verificatori, utilizzando i poteri specificamente attribuiti dall’art. 32, comma 1 punti 3) 4) 6) 8) e 8-bis) DPR 600/73.

La mancanza di “effettive esigenze” di controllo sul luogo (consistenti ad es. nella verifica del magazzino, cfr. Circolari della GdF, 17.8.2000, n. 250400 e n. 1/2008) conduce all’illegittimità dell’accesso per violazione di legge. 

La Suprema Corte di Cassazione, sentenza n. 17576 del 12 febbraio 2002, depositata il 10 dicembre 2002, ha stabilito che le disposizioni dello Statuto del Contribuente, che costituiscono esplicitazione dei principi costituzionali, sono dotate di superiorità assiologica e per questo sono vincolanti per l’interprete.

( Nota: Un riconoscimento importante delle disposizioni dello Statuto del Contribuente è contenuto nell’ordinanza n. 216/2004 della Corte Costituzionale, della quale si riporta la parte più importante:

Considerato che il rimettente ravvisa l'illegittimità costituzionale dell'art. 17 della legge 13 aprile 1977, n. 114 (Modificazioni alla disciplina dell'imposta sul reddito delle persone fisiche), nel contrasto con i principi enunciati negli artt. 1, 6 e 7 della successiva legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), implicitamente qualificati come norme interposte;

che siffatta qualificazione sembra fondarsi - senza, peraltro, alcuna espressa motivazione - sul solo dato testuale rappresentato dall'art. 1 della legge n. 212 del 2000, secondo cui «le disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell'ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali»;

che la giurisprudenza di legittimità e la dottrina prevalente sono viceversa concordi nell'affermare che le disposizioni della legge n. 212 del 2000, proprio in ragione della loro qualificazione in termini di principi generali dell'ordinamento, rappresentano (non già norme interposte ma) criteri di interpretazione adeguatrice della legislazione tributaria, anche antecedente;

che pertanto i parametri evocati non risultano idonei a fondare il giudizio di legittimità costituzionale, dovendo invece ritenersi che il giudice a quo possa eventualmente fare diretta applicazione della citata legge n. 212 del 2000, valutando la possibilità di una interpretazione adeguatrice della norma censurata, in senso conforme ai principi espressi dagli artt. 6 e 7; “)

 

 

E’, quindi, una norma dotata di superiorità rispetto alla legislazione ordinaria, ed esprime i principi generali del diritto tributario. Pertanto la sua violazione rende invalido l’atto che ne è conseguito.  La stessa Circolare della Guardia di Finanza, 17.8.2000, n. 250400, a chiarimento delle norme sullo Statuto del Contribuente, conclude in questo modo.

Il paragrafo “4) Istruzioni operative” precisa che solo l’assolvimento delle condizioni stabilite dall’art. 12, comma 1, legge n. 212/2000 legittimano l’accesso: “La novella legislativa tende, tuttavia, a circoscrivere ulteriormente la discrezionalità nell’esercizio del potere di accesso e rende necessario un ulteriore sforzo di approfondimento intorno alle <effettive esigenze di indagine e controllo sul luogo> che possono, esse soltanto, legittimarlo.

Al di fuori di tali esigenze l’accesso è illegittimo.

Quindi non è solo la disamina dell’orientamento della Suprema Corte di Cassazione a condurre a questo risultato, ma è anche la stessa GdF a concludere che le “effettive esigenze di indagine e controllo sul luogo” siano la condizione legittimante la verifica.

E queste devono essere indicate dagli organi verificatori; così sostiene la stessa Circolare della Guardia di Finanza citata, anche se individua in altra sede (il verbale) il documento in cui indicare il requisito di legge:

“Sia le “effettive esigenze di indagine e controllo sul luogo” che giustificano l’accesso, come anche gli eventuali motivi di “eccezionalità ed urgenza” che dovessero giustificare l’effettuazione degli interventi fuori dagli orari ordinari di esercizio dell’attività, dovranno essere fatte risultare nel verbale di verifica del primo giorno.”

Insomma, gli stessi organi che hanno proceduto alla verifica hanno emanato istruzioni chiare su come deve essere interpretata la legge in questione.

Le sentenze, decidendo in modo diverso, non hanno evidenziato quale supporto normativo abbiano le conclusioni raggiunte e hanno ragionato su principi che appaiono metagiuridici.

Condannando, oltretutto, il contribuente alla rifusione delle spese di giudizio.

 

 

 

 

 

 

 

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