Da “Il Fisco” n. 16/2010
Comm. Trib. Prov. Vicenza, nn. 37, 38 e 39 del
18 febbraio 2010
L’efficacia
probatoria delle presunzioni OMI
Di
Alberto Buscema
Dottore
Commercialista in Padova
Introduzione
Le sentenze commentate sono state
oggetto di particolare attenzione da parte dei quotidiani economici (si
tratta di Italia Oggi, pagg. 1 e 22 e de Il Sole 24 Ore pag. 31, entrambi
del 31 marzo 2010), dopo che la Direzione Regionale
delle Entrate del Veneto ha diffuso la notizia delle innovative decisioni
pro-fisco. E’ comprensibile che la parte alla quale il giudizio è stato
favorevole abbia l’interesse di diffondere ed esaltare principi che
favorirebbero le casse erariali; questi, tuttavia, qualora confermati,
sconvolgerebbe l'assetto probatorio, permettendo di fare della presunzione
Omi, abbinata all’importo mutuato
dall’acquirente, una prova che condurrebbe all’emanazione di
accertamenti incontestabili perché capaci di resistere a qualsiasi controprova
proveniente dalle parti interessate dalla compravendita immobiliare.
Secondo le sentenze, alla presunzione legale relativa sul valore normale,
abrogata per sospetta illegittimità, subentrerebbe la presunzione
qualificata che diventerebbe assoluta
e perciò sfornita di controprova. Come è noto la formulazione di
presunzioni assolute è contraria ai principi Costituzionali ed è quindi
inammissibile.
Questa è la conclusione che
si ritrae dalle sentenze citate in epigrafe, tra le prime a decidere sulla validità di
tali prove presuntive, asseritamene
dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, alle quali il
contribuente aveva opposto la regolarità delle transazioni effettuate
producendo prove, anche documentali, considerate, unanimemente dalla
dottrina, efficaci nel superare la presunzione.
I fatti
Le sentenze in esame sono
state occasionate dall’impugnazione di alcuni avvisi di accertamento,
notificati prima dell’abrogazione delle presunzioni legali Omi, che avevano
ad oggetto operazioni di compravendita immobiliare effettuate anteriormente
all’ introduzione della normativa sul valore normale e dei valori dell’Omi;
la rettifica è stata effettuata utilizzando congiuntamente le stime Omi e
l’importo delle somme mutuate dagli acquirenti, ritenendo che siano
presunzioni “avvalorate da quanto disposto dal D.L. 223/2006, art. 35,
comma 3”.
La Guardia di Finanza, durante i
procedimenti accertativi, aveva convocato presso i propri uffici gli
acquirenti delle unità immobiliari ad uso abitativo e aveva chiesto loro
quale destinazione avesse avuto l’importo chiesto a mutuo all’istituto di
credito. Gli acquirenti avevano dichiarato a verbale che gli importi
eccedenti il corrispettivo evidenziato nel rogito erano stati destinati a
mobilio e altri oneri accessori
all’acquisto. Inoltre la Guardia di Finanza aveva richiesto di produrre i
preliminari di compravendita, dall’esame dei quali non era emersa alcuna
differenza con il corrispettivo
dichiarato nel definitivo; sotto questo profilo, infatti, non era stato
mosso alcun rilievo.
Nel giudizio, il ricorrente,
preliminarmente eccepiva l’intervenuta abrogazione della normativa sul
valore normale; nel merito, evidenziava, tra l'altro, che l'avviso di
accertamento applicava le stime Omi anche ai sottotetti, parti
dell’edificio che non possono essere abitate e, quindi, non correttamente
colte e valorizzate da tali
coefficienti.
La normativa di riferimento
Per comprendere se le
sentenze siano giunte a conclusioni condivisibili, si deve ripercorrere
l’evoluzione della normativa di riferimento e analizzare i principi sulla
formazione delle prove nel processo tributario.
Come è noto l’art. 35, commi
secondo e terzo, del D.L. n.
223/2006, avevano dotato l’Amministrazione finanziaria di innovativi poteri
di rettifica per contrastare il fenomeno dell’evasione nel settore
immobiliare.
In particolare il legislatore
era intervenuto incisivamente dotando l’amministrazione finanziaria dello
strumento presuntivo in base al quale la prova sull’evasione di materia
imponibile, sia ai fini Iva che ai fini delle imposte dirette, si intendeva
integrata dal semplice raffronto tra il corrispettivo dichiarato nel rogito
notarile e il valore normale.
Quest’ultimo poteva essere
desunto dalle rilevazioni dell’Omi integrate da altri criteri. (si veda in proposito il Provvedimento
dell’Agenzia Entrate del 27.7.2007. Tra i criteri di supporto, che
corroboravano le stime Omi, si annoveravano le somme prese a mutuo dagli
acquirenti.)
Senza dilungarci troppo sui
sospetti di illegittimità della norma, relativamente all’Iva - per
contrasto con la
Direttiva Europea, - la legge 7 luglio 2009, n. 88,
rubricata “Disposizioni per
l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle
Comunità europee - Legge comunitaria 2008”, abrogava la presunzione legale a
favore del fisco in materia di accertamenti immobiliari a valore normale. E
ciò, per quanto non necessario, sia ai fini delle imposte sui redditi che
dell’Iva.
Restava da verificare quale
sorte toccasse alle presunzioni basate sulle stime Omi, ormai depotenziate dal loro valore di presunzioni legali.
Sulla base del Provvedimento
dell’Agenzia delle Entrate del 27.7.2007 si sarebbe dovuto argomentare che
tali stime avessero natura di
presunzioni semplici.
Ciò era avvalorato dal comma
265 art. 1 della legge 24.12.2007 n. 244.
Su questo punto, le sentenze
in commento sembrano anch'esse ritenerle presunzioni semplici, in quanto
assumono che la stima
Omi diventi prova quando avvalorata dagli importi
mutuati, evolvendosi il quadro di riferimento in presunzione grave, precisa
e concordante.
I principi stabiliti dalle
sentenze
Le sentenze decidono alcune
questioni:
1)
la gravità precisione e concordanza della
presunzione quando basata congiuntamente sui valori Omi e sul mutuo erogato
agli acquirenti;
2)
la inefficacia delle dichiarazioni rilasciate dagli
acquirenti sulla reale destinazione degli importi mutuati, affermazioni
corroborate dai preliminari;
3)
la correttezza dell’autorizzazione all’accesso
nella sede aziendale, nonostante mancassero le effettive esigenze di
verifica sul luogo.
Il cuore delle decisioni è
l’affermazione di ritenere non
probanti le dichiarazioni rilasciate dagli acquirenti alla Guardia di
Finanza, così motivata: “non possono
ritenersi sufficienti le dichiarazioni espresse dagli acquirenti, per
evidenti motivi di reciproca convenienza e conseguente scarso valore
probatorio delle dichiarazioni da questi effettuate”.
Si giunge a tale conclusione
immotivatamente, senza, cioè, indicare in sentenza la fonte, l’iter logico giuridico del proprio
convincimento.
Giova al lettore ricordare
che l’art. 111 della Costituzione impone di motivare tutti i provvedimenti
giurisdizionali, affinché sia garantito il diritto di difesa e il controllo
sulla eventuale arbitrarietà della sentenza; tale principio è stato
recepito, nel processo tributario, tramite l’art. 36, comma 2, punto 4) del
D.Lgs. n. 546/1992, nonché l’art. 113 c.p.c, richiamato dall’art. 1, comma
2, del D.Lgs. n. 546/1992.
Le sentenze, invece, sono
perentorie: le dichiarazioni degli acquirenti non servono.
Tuttavia mai si saprà quale
sarebbe la “reciproca convenienza” che inficia il valore probatorio di tali
dichiarazioni. Nemmeno si saprà se la valutazione delle prove a favore del
contribuente, consistente in numerosi
preliminari stipulati con gli acquirenti e acquisiti dalla Guardia di
Finanza, sia stata omessa oppure se anche questi contratti siano stati
ritenuti inidonei a contrastare la presunzione formulata dall'Ufficio: la
motivazione tralascia di chiarire anche questo aspetto.
La sentenza si limita ad
affermare ulteriormente che il ricorrente
“non fornisce alcun elemento
probatorio contrario”, lasciando presumere che anche i preliminari non
siano stati considerati elementi probatori.
In assenza delle motivazioni,
pare di capire che le sentenze abbiano considerato privo di alcun valore probatorio sia i
documenti provenienti dal ricorrente che quelli provenienti dai terzi
acquirenti, così come le dichiarazioni verbalizzate di questi ultimi,
poichè riferiti alle “parti interessate” (il venditore e l'acquirente).
Ma allora, quali elementi ha
a disposizione il contribuente per difendersi?
Sembra che non si sia
approfondito sufficientemente la ricaduta di tale impostazione sul diritto
di difesa e sul principio di capacità contributiva.
I problemi emergenti
Le sentenze, non chiarendo in
motivazione le fonti giuridiche delle decisioni, lasciano dunque aperti
numerosi interrogativi.
Questi debbono ora essere
risolti autonomamente, analizzando i profili probatori riguardanti la
fattispecie in esame e valorizzando i contributi interpretativi dati dalla
dottrina.
Affrontando la presunzione di evasione basata
sull’importo mutuato dagli acquirenti per l’acquisto dell’immobile, la
dottrina si era preoccupata di delineare la corretta portata della norma
fornendo una interpretazione ossequiosa dei principi di corretta formazione
della prova.
In particolare un autorevole studio del
Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 152-2006/T, aveva così esplicitato la predisposizione
della prova avversante la presunzione relativa riguardante il mutuo :
“ … è possibile dunque per il
contribuente dare la prova che il maggior importo del mutuo contratto, dal
cessionario, si giustifica per la necessità di affrontare ulteriori spese
oppure per altre ragioni oggettive (si immagini il caso del mutuo ottenuto
prima di conoscere l’esatto importo dell’immobile acquistato perché, per
esempio, ancora in costruzione).
Da un punto di vista applicativo, potrebbe
allora essere utile indicare, nel contratto di compravendita e/o nell’atto
di finanziamento, che il mutuo contratto dal cessionario per l’acquisto
dell’immobile è solo in parte destinato al finanziamento dello stesso,
specificando, eventualmente, i motivi per i quali è stata erogata una somma
maggiore.
In questo modo, si potrebbe evitare
l’azione accertativa dell’Amministrazione finanziaria o, comunque,
precostituire, a livello documentale, le argomentazioni da far valere in
sede procedimentale o processuale contro l’eventuale atto di accertamento.”
Questo documento
interpretativo affermava, quindi, che i contraenti potevano dichiarare già
nell’atto di compravendita quale destinazione potesse avere l’importo
mutuato dall’acquirente.
Secondariamente al fine di
rendere possibile una difesa, precostituendo una prova a favore del
venditore.
Infatti, in assenza di tali
accorgimenti, il venditore non sarebbe in grado di ottenere informazioni su
come l’acquirente utilizza il suo
libero arbitrio, e quindi nulla potrebbe sapere sugli importi mutuati e
della loro destinazione. Compromettendo la sua difesa.
Nel caso deciso dalle
sentenze, la destinazione delle somme mutuate eccedenti il corrispettivo di
compravendita emergeva dalle dichiarazioni degli acquirenti e dal
preliminare.
Non vi è alcuna differenza
probatoria - poiché il contenuto e la fonte delle stesse sono le medesime -
tra le dichiarazioni rilasciate nell'atto pubblico confezionato dalla
Guardia di Finanza e quelle effettuabili nel contratto notarile
“definitivo”. Tanto più se corroborate dai contratti preliminari ,
notoriamente il documento dal quale emerge l'accordo dissimulato.
Ecco che la posizione delle
sentenze appare misteriosa, non solo sotto il profilo giuridico ma anche
dal semplice punto di vista della logica.
Le sentenze, infine, non
hanno preso in considerazione nemmeno la sollevata eccezione che inficia la
presunzione che vorrebbe ricostruire il corrispettivo di vendita (fatto
ignoto) partendo dall'importo del mutuo (fatto noto). Tale assioma è
confutato dalla stessa Agenzia delle Entrate la quale, nelle istruzioni
alla dichiarazione dei redditi delle persone fisiche, afferma che gli
interessi passivi afferenti il mutuo prima casa sono detraibili “proporzionalmente soltanto
all’ammontare del costo dell’immobile comprensivo delle spese notarili e
degli oneri accessori”.
Se si applicassero
correttamente i principi di buona fede, ribaditi dallo Statuto del
Contribuente, e vi fosse sempre una giurisprudenza coraggiosa
nell’applicarli, non si vedrebbe mai la stessa Agenzia
delle Entrate applicare il principio così com’è o al suo contrario a
seconda della sua convenienza.
E’ chiaro, infatti, che le
conclusioni delle sentenze sono la copia di quanto prospettato dalla stessa
Agenzia nelle sue controdeduzioni.
Insomma, secondo l'Agenzia
delle Entrate, il mutuo può avere altre destinazioni se il contribuente
deve dedurre gli interessi passivi, limitando così la detrazione a suo
favore; viceversa il mutuo non può avere altre destinazioni quando si
tratta di contestare gli importi
relativi all’acquisto dell’immobile! (per accertare ulteriori imposte in
capo al venditore).
La sentenza non ha, quindi,
tenuto in considerazione tale aspetto; nemmeno ha ritenuto idonee le
prove agli atti, senza spiegare
quali elementi di “reciproca convenienza” conferiscano “scarso valore
probatorio” alle dichiarazioni degli acquirenti.
Per cercare di dare un senso
a tali affermazioni dobbiamo analizzare i benefici astrattamente ritraibili
dagli acquirenti dichiarando ciò che l'Agenzia ha ritenuto un falso(!),
cioè dichiarando che l'importo mutuato eccedente il corrispettivo sia stato
destinato a mobilio e altri oneri accessori. Poiché al venditore sono state
accertate maggiori Ires, Irap e Iva, l'unica imposta sulla quale
potrebbero, astrattamente, esistere
profili di “reciproca” convenienza è l’Iva. Le altre imposte,
essendo personali, non presentano tali profili. La disciplina sulla
solidarietà nel pagamento dell’Iva tra acquirente e cedente è posta dall’articolo 60-bis, comma 3-bis, del
DPR n. 633/1972 .
Questa norma è stata
innestata nel decreto Iva per mezzo della legge 24 dicembre 2007, n. 244,
articolo 1, comma 164, ed è entrata in vigore il 1 gennaio 2008.
Non è, quindi, applicabile a
fatti antecedenti, come quelli in esame.
Infatti la responsabilità
solidale per le violazioni commesse si perfeziona al momento in cui viene
stipulato l’atto. Si veda in tal senso lo Studio n. 16-2008/T del Consiglio
Nazionale del Notariato.
In ogni caso la norma non è
applicabile al caso de quo: infatti essa fa riferimento, letteralmente, ad
un corrispettivo diverso da quello “effettivo”. Siccome la responsabilità
solidale dell’acquirente ai fini dell’Iva rappresenta un’ipotesi eccezionale,
avendo richiesto in passato specifici interventi normativi (rappresentati
dall’introduzione dell’art. 60-bis DPR 633/1972 commi 1, 2 e 3- il 3-bis,
come visto, è stato aggiunto dopo), l’interpretazione deve essere limitata
ai casi tassativamente individuati dal legislatore, in virtù dei canoni
interpretativi stabiliti dall’art. 14 delle disposizioni sulla legge in
generale.
E’ la stessa Circolare
dell’Agenzia delle Entrate n. 8/E del 13 marzo 2009 ad evidenziarlo:
“Presupposto per l'applicazione del comma
3-bis in commento e' rappresentato dalla divergenza tra l'importo del
corrispettivo indicato nell'atto di cessione e nella relativa fattura,
rispetto al corrispettivo effettivamente percepito.
Ai fini della sua applicazione, quindi,
il comma 3-bis non assume quale parametro di riferimento il "valore
normale"dell'immobile trasferito, a differenza di quanto dispone
il precedente comma 2 del
medesimo articolo 60-bis.
La differenza e' sostanziale, in quanto,
mentre il "valore normale" rappresenta una presunzione legale
utilizzabile nell'accertamento ai fini IVA e ai fini delle Imposte sui
redditi che si fonda sul "prezzo o corrispettivo mediamente praticato
per beni o servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera
concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel
luogo in cui e' stata effettuata l'operazione o nel tempo e nel luogo piu'
prossimi" (articolo 14, terzo comma, del d.P.R. n. 633), il comma
3-bis trova applicazione esclusivamente nell'ipotesi di effettiva
divergenza tra l'importo dichiarato e quello percepito.
Ne consegue, con riferimento al quesito
in esame, che la responsabilita' solidale di cui al comma 3-bis non trova
applicazione in caso di accertamento della maggiore imposta basato sul c.d.
"valore normale".
Tale conclusione si fonda su di
un'interpretazione letterale e logico-sistematica dell'impianto normativo
dettato ai fini IVA, in quanto la responsabilita' solidale dell'acquirente
ai fini IVA rappresenta un'ipotesi eccezionale, che va limitata ai casi
tassativamente previsti dal Legislatore. Ne consegue, in mancanza di
un'espressa previsione normativa, che non e' possibile estendere la
responsabilita' solidale dell'acquirente anche al caso in cui la maggiore
imposta derivi da un accertamento in base al cd "valore normale".”
Quindi la normativa non è
applicabile qualora il valore normale diverga dal corrispettivo dichiarato,
poiché la presunzione non rappresenta il corrispettivo “effettivo”.
Ergo, nessun aspetto di
reciproca convenienza emerge nel rapporto acquirente-venditore.
Anche nel merito, ovvero la
contestazione sull'applicazione delle stime Omi ai cd. sottotetti non
abitabili, la valutazione è rimasta
nella penna dell’estensore la risposta.
Infine un ultima chiosa.
Il caso in esame, come detto,
aveva ad oggetto compravendite effettuate antecedentemente all’entrata in
vigore della norma sul valore normale, DL 223/2006, e ai conseguenti valori
Omi. Al tempo dei fatti non era ipotizzabile né prevedibile l’introduzione
di una tale norma; nemmeno quindi si poteva predisporre una adeguata
documentazione difensiva o comunque probatoria. Ciò rende molto difficile
fornire una prova contraria alla
pretesa del fisco, compromettendo, già così, il diritto di difesa del
contribuente. Questo aspetto dimostra ancor di più che, anche volendo
condividere l'assurdo principio sulla reciproca convenienza, già confutato
sopra, omettendo di valorizzare la controprova offerta si giungerebbe ad
addossare al contribuente la cd. “probatio diabolica” ovvero quella prova
impossibile che viene considerata in contrasto con il diritto di difesa
stabilito dall’art. 24 della Costituzione.
Le decisioni, invece, devono essere
assunte in modo conforme ai principi costituzionali, i massimi principi del
nostro ordinamento L'eliminazione dalle prove delle dichiarazioni degli
acquirenti e dei preliminari stipulati, non consente la produzione di altre
prove.
Le sentenze, quindi,
disattendono immotivatamente il valore probatorio delle dichiarazioni e
nulla affermano sui preliminari.
Privando il contribuente del suo diritto di difesa e rendendo la sua
capacità contributiva “ineffettiva”.
Sull’art. 12 comma 1 statuto
contribuente
La sentenza affronta anche la
portata dell’art. 12, comma 1 dello Statuto del Contribuente.
Il
ricorrente aveva eccepito la violazione dell’art. 12, comma 1, della legge
n. 212/2000 da parte dell’AF, poiché nella motivazione dell’ordine di
servizio della GdF, con la quale i militari hanno acceduto ai locali della
sede legale della società ricorrente, non erano indicate quali fossero le “esigenze
effettive di indagine e controllo sul luogo” condizioni
legittimanti l’accesso quando i verificatori si recano, come qui è
avvenuto, nei locali destinati ad attività commerciali.
Né
mai si è fatto riferimento a tali esigenze in alcun verbale dei
verificatori.
La sussistenza di tali
condizioni deve essere valutata in sede di decisione dell’accesso da colui
che ha il potere di disporlo, dandone contezza nella lettera d’incarico e
autorizzazione all’accesso affinché il contribuente possa verificare la
sussistenza delle condizioni che legittimano questo potere invasivo; in tal
senso dispone l’art. 7, comma 1, della legge 212/2000: “Gli atti dell’amministrazione
finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’art. 3 della L. 7
agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti
amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche
che hanno determinato la decisione dell’amministrazione.”.
La motivazione è un elemento
essenziale dell’atto autorizzatorio, atto che assolve a funzioni di
garanzia e informazione al soggetto verificato.
Le
sentenze impugnate invertono la portata della norma, stabilendo
inopinatamente che non sarebbe l’Amministrazione Finanziaria a dover
spiegare quali siano le esigenze effettive di indagine e controllo sul
luogo che inducono ad effettuare la verifica presso i locali aziendali, ma
sarebbe il contribuente a dover indicare le concrete ragioni sulla carenza
di esigenze effettive d’indagine e controllo sul luogo.
Secondo le sentenze la legittimazione è insita nel
potere di verifica sostanziale, che, per essere efficace, presuppone
l'accesso dei verificatori presso i locali della società.
Così qualsiasi verifica sarebbe legittima, perché alla
sua base vi sono esigenze di controllo.
Se questo fosse lo spirito e la ratio della norma ci si
dovrebbe interrogare quale senso avrebbe l’art. 12, comma 1, dello Statuto
del Contribuente, posto che tutto rimarrebbe come era nella normativa
precedente alla sua entrata in vigore.
Tale conclusione è, quindi,
infondata e sfornita (anche questa) di motivazione, nonchè paradossale,
come sopra evidenziato.
E’ la stessa rubrica
dell’art. 12 dello Statuto del Contribuente a stabilire che nella norma si
tratta dei “Diritti e garanzie del
contribuente sottoposto a verifiche fiscali”. Si introducono dei
diritti che il contribuente non aveva, il diritto a non essere disturbato
nella conduzione della sua attività economica se non sussistono particolari
ragioni, le “esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo”. La
norma dispone che “Tutti gli accessi…
sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo
sul luogo”. L’interpretazione letterale, canone ermeneutico indicato
dall’art. 12 delle cd. preleggi,
impone di concludere che è il soggetto che effettua l’accesso ad avere
esigenze di indagine e queste devono essere effettive e motivate dall’AF, poiché solo lei
conosce le proprie esigenze accertative.
E solo lei deve indicare
quali sono nell’atto autorizzatorio; questo è il senso dell'art. 7 dello
Statuto del Contribuente sulla motivazione degli atti.
In difetto di tali
indicazioni l’avviso di accertamento è illegittimo.
Infatti, lo Statuto del Contribuente ha introdotto nel
2000 tale disposizione nelle norme accertative bilanciando gli invasivi
poteri istruttori con i diritti dei contribuenti, modulando le verifiche
tributarie in maniera più rispettosa dei valori Costituzionali. Ai sensi
della nuova legge, le verifiche meramente contabili, come quella attuata
nel caso deciso, non possono essere più condotte tramite accesso ai locali
della società (poiché incidono negativamente sul normale svolgimento
dell’attività economica), ma devono
essere condotte presso l’ufficio dei verificatori, utilizzando i poteri
specificamente attribuiti dall’art. 32, comma 1 punti 3) 4) 6) 8) e 8-bis)
DPR 600/73.
La mancanza di “effettive
esigenze” di controllo sul luogo (consistenti ad es. nella verifica del
magazzino, cfr. Circolari della GdF, 17.8.2000, n. 250400 e n.
1/2008) conduce all’illegittimità dell’accesso
per violazione di legge.
La Suprema Corte
di Cassazione, sentenza n. 17576 del 12 febbraio 2002, depositata il 10
dicembre 2002, ha
stabilito che le disposizioni dello Statuto del Contribuente, che
costituiscono esplicitazione dei principi costituzionali, sono dotate di superiorità
assiologica e per questo sono vincolanti per l’interprete.
( Nota: Un
riconoscimento importante delle disposizioni dello Statuto del Contribuente
è contenuto nell’ordinanza n. 216/2004 della Corte Costituzionale, della
quale si riporta la parte più importante:
“Considerato
che il rimettente ravvisa l'illegittimità costituzionale dell'art. 17
della legge 13 aprile 1977, n. 114 (Modificazioni alla disciplina
dell'imposta sul reddito delle persone fisiche), nel contrasto con i
principi enunciati negli artt. 1, 6 e 7 della successiva legge 27 luglio
2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del
contribuente), implicitamente qualificati come norme interposte;
che siffatta
qualificazione sembra fondarsi - senza, peraltro, alcuna espressa
motivazione - sul solo dato testuale rappresentato dall'art. 1 della legge
n. 212 del 2000, secondo cui «le disposizioni della presente legge, in
attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono
principi generali dell'ordinamento tributario e possono essere derogate o
modificate solo espressamente e mai da leggi speciali»;
che la
giurisprudenza di legittimità e la dottrina prevalente sono viceversa concordi
nell'affermare che le disposizioni della legge n. 212 del 2000, proprio in
ragione della loro qualificazione in termini di principi generali
dell'ordinamento, rappresentano (non già norme interposte ma) criteri di
interpretazione adeguatrice della legislazione tributaria, anche
antecedente;
che pertanto i
parametri evocati non risultano idonei a fondare il giudizio di legittimità
costituzionale, dovendo invece ritenersi che il giudice a quo possa
eventualmente fare diretta applicazione della citata legge n. 212 del 2000,
valutando la possibilità di una interpretazione adeguatrice della norma
censurata, in senso conforme ai principi espressi dagli artt. 6 e 7; “)
E’, quindi, una norma dotata
di superiorità rispetto alla legislazione ordinaria, ed esprime i principi
generali del diritto tributario. Pertanto la sua violazione rende invalido
l’atto che ne è conseguito. La stessa Circolare
della Guardia di Finanza, 17.8.2000, n. 250400, a chiarimento
delle norme sullo Statuto del Contribuente, conclude in questo modo.
Il paragrafo “4) Istruzioni operative” precisa che
solo l’assolvimento delle condizioni stabilite dall’art. 12, comma 1, legge
n. 212/2000 legittimano l’accesso: “La
novella legislativa tende, tuttavia, a circoscrivere ulteriormente la discrezionalità
nell’esercizio del potere di accesso e rende necessario un ulteriore sforzo
di approfondimento intorno alle <effettive esigenze di indagine e
controllo sul luogo> che possono, esse soltanto, legittimarlo.”
Al di fuori di tali esigenze
l’accesso è illegittimo.
Quindi non è solo la disamina
dell’orientamento della Suprema Corte di Cassazione a condurre a questo
risultato, ma è anche la
stessa GdF a concludere che le “effettive esigenze di indagine e controllo sul luogo” siano la
condizione legittimante la verifica.
E queste devono essere
indicate dagli organi verificatori; così sostiene la stessa Circolare
della Guardia di Finanza citata, anche se individua in altra sede (il
verbale) il documento in cui indicare il requisito di legge:
“Sia le “effettive
esigenze di indagine e controllo sul luogo” che giustificano l’accesso,
come anche gli eventuali motivi di “eccezionalità ed urgenza” che dovessero
giustificare l’effettuazione degli interventi fuori dagli orari ordinari di
esercizio dell’attività, dovranno essere fatte risultare nel verbale di
verifica del primo giorno.”
Insomma, gli stessi organi
che hanno proceduto alla verifica hanno emanato istruzioni chiare su come
deve essere interpretata la legge in questione.
Le sentenze, decidendo in modo
diverso, non hanno evidenziato quale supporto normativo abbiano le
conclusioni raggiunte e hanno ragionato su principi che appaiono
metagiuridici.
Condannando, oltretutto, il
contribuente alla rifusione delle spese di giudizio.
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