Da “Il Fisco” n. 40/2014
Il contraddittorio preventivo rende inutile il
reclamo
Di
Alberto Buscema
Avvocato
e Dottore Commercialista in Padova
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Il reclamo è stato aspramente
criticato dalla dottrina per la scarsa tutela dei diritti del contribuente.
In queste brevi note si evidenzieranno altri aspetti iniqui che dimostrano
l’addossamento dei costi procedurali e processuali al contribuente. Se si
esamina il nuovo istituto del contraddittorio preventivo generalizzato,
inizialmente delineato dalla famosa decisione della CGUE cd. “Sopropè” e lo si paragona al reclamo, si scorge che il
primo è in grado di far emergere in fase antecedente all’emissione
dell’atto impositivo gli stessi elementi considerati dal reclamo, ma con
indubbi vantaggi sia per il contribuente che per il fisco.
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1.
Premessa
Il reclamo, disciplinato
dall’art. 17-bis del D.Lgs. n. 546/1992, è un istituto
di recente introduzione che, secondo quanto affermato dalla circ. n. 9/E
del 19 marzo 2012, ha lo scopo di deflazionare il contenzioso.
Nonostante il pregevole
intento, la formulazione della norma dimostra che lo scopo viene raggiunto
privilegiando gli interessi dell’Erario e addossando gli oneri al
contribuente.
Osservando la struttura
dell’istituto, se è vero che lo scopo della disposizione è quello di
imporre un riesame amministrativo del provvedimento autoritativo al fine di
verificare se le eccezioni di illegittimità dell’atto sollevate dal
ricorrente sono fondate, consentendo all’Agenzia delle Entrate di
migliorare la propria efficienza e di evitare la soccombenza nel giudizio
tributario - e in questo la norma sembra aver raggiunto il proprio intento - purtroppo è
anche vero che la medesima utilità non si rinviene analizzando la posizione
del contribuente, che apparentemente consegue anch’egli un beneficio
dall’annullamento dell’atto: dopo attento esame, che qui verrà condotto,
si dimostrerà che il ricorrente risulta svantaggiato, se non addirittura
vessato.
Già nella originaria
formulazione della disposizione si erano evidenziate alcune gravi insidie
dell’istituto - tutte a sfavore del ricorrente - rappresentate dalla
sanzione di inammissibilità del ricorso non preceduto dal reclamo e dalla
privazione della sospensione dell’esecuzione dell’atto; la prima generava
la perdita definitiva del diritto all’impugnazione dell’atto, mentre la
seconda non consentiva di fermare tempestivamente la riscossione di quanto
indicato nel provvedimento.
Tali gravi squilibri sono
stati corretti solo di recente, ma i rimedi non consentono ancora di
considerare equa la disposizione.
Pur essendo pregevole
l’intento di intervenire a livello amministrativo per correggere gli errori
dell’atto (questo lo scopo del reclamo) o per valutare eventuali elementi
ignoti al fisco (al fine della mediazione), non devono passare in secondo
piano i diritti del contribuente, che qui sembrano essere stati trascurati.
2.
Le
storture del reclamo
Si deve precisare che con le
presenti note si vuole esclusivamente evidenziare la scarsa attenzione del
legislatore per i diritti del contribuente, evidenziando quali siano le
storture della norma e proponendo una equa alternativa a questo rimedio che
è già stato abbondantemente criticato dalla dottrina e dalla
giurisprudenza.
Procedo con alcuni esempi che
evidenzieranno quanto appena affermato.
All’atto della presentazione
del reclamo, l’Agenzia delle Entrate si viene a trovare già in una
posizione di privilegio rispetto al contribuente.
Infatti, precedentemente
all’introduzione del reclamo per impugnare il provvedimento impositivo
illegittimo era necessario presentare il ricorso alla Commissione
Tributaria Provinciale. Durante il processo, qualora l’Agenzia delle
Entrate avesse ritenuto fondate le eccezioni o contestazioni del
ricorrente, avrebbe potuto annullare l’atto in autotutela e sarebbe
risultato applicabile l’art. 46, comma 3, del D.Lgs.
n. 546/1992.
Tale disposizione consente di
salvaguardare il contribuente garantendogli il diritto al rimborso delle
spese professionali sostenute per predisporre la difesa processuale, in
armonia con quanto stabilito dall’art. 15 del D.Lgs.
n. 546/1992, sulle spese di giudizio.
Ciò non emerge dalla piana
lettura della disposizione, ma è l’effetto della nota decisione n. 274 del
4 luglio 2005, con la quale la Corte Costituzionale 1 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.
46, comma 3, del D.Lgs. n. 546/1992,
sostanzialmente affermando il principio che, nel caso di estinzione del
giudizio tributario a seguito dell’annullamento in autotutela dell’atto
oggetto dell’impugnazione da parte dello stesso ufficio emittente, al
contribuente è riconosciuto il diritto di proseguire il giudizio per
ottenere il ristoro delle spese del processo.
Nel reclamo, l’assenza di
tutela emerge dalla lettura dell’art. 17-bis del D.Lgs.
n. 546/1992, nel quale non vi è alcun riferimento al regime delle spese di
difesa in caso di autotutela da parte dell’Ufficio.
È ovvio che i costi difensivi
sono quelli più rilevanti perché, pur essendo il reclamo un procedimento
amministrativo, viene comunque redatto un ricorso e l’alto tecnicismo della
materia tributaria impone l’assistenza di un professionista qualificato.
Quindi la prima osservazione
sulla parzialità della norma è che se il ricorrente, tramite il suo
difensore, appresta una efficace difesa, l’Ufficio - ovviamente - provvede
ad annullare l’atto in autotutela, raggiungendo il proprio scopo di
deflazionare il contenzioso e migliorare la propria efficienza; ma la
tutela del contribuente è sacrificata, perché le spese difensive restano a
suo carico.
Emerge con evidenza che il
contribuente sopporta due oneri ingiustificati: uno di tipo emotivo, il
ricevimento di un atto infondato, e uno economico, le spese professionali
per farlo annullare.
Sempre con l’ottica del
contribuente, vediamo ora cosa gli succede nel caso opposto.
Se il contribuente non riesce
a predisporre una difesa efficace 2
l’Agenzia delle Entrate avrà buon gioco nel processo e otterrà dal
contribuente un ulteriore esborso per le spese di procedimento (stabilite
nella misura del 50% delle spese di giudizio in aggiunta a queste, art.
17-bis, comma 10).
Infatti, apparentemente
l’art. 17-bis disciplina questo aggravio a favore di entrambe le parti, ma
la decisione sul proseguire, non accogliendo il reclamo, o terminare il
procedimento, annullando l’atto in autotutela, spetta all’Agenzia delle
Entrate.
La quale, conoscendo
perfettamente le decisioni delle locali Commissioni Tributarie, a cagione
delle numerosissime cause fiscali che tratta rispetto al difensore che ha
un bacino di sentenze più esiguo, riesce a farsi rapidamente i calcoli
probabilistici di accoglimento o rigetto del ricorso.
Quindi il secondo profilo di
iniquità è che se il ricorrente non appresta una efficace difesa, l’Ufficio
otterrà un’ulteriore somma rispetto a quanto spetterebbe in caso fosse
attuabile solamente l’ordinario processo tributario.
Questa seconda conclusione
sottolinea la disparità di trattamento tra il fisco e il contribuente:
analizzata compiutamente la difesa del contribuente, l’Ufficio è in grado
di decidere facilmente se sia più conveniente per le casse erariali
concludere, con l’autotutela, o proseguire il procedimento; ma il
contribuente viene gravato dei relativi oneri.
Insomma la formulazione della
norma dimostra che non è stato raggiunto alcun equilibrio tra le parti, poiché
è l’Agenzia delle Entrate il dominus
del procedimento e ha a sua disposizione tutti gli elementi per decidere la
strategia a sé più favorevole.
La norma “appare” equa nel
disciplinare, al comma 10, la condanna aggravata a carico del soccombente,
ma, riflettendo sulle modalità di funzionamento del procedimento, è ovvio
che è l’Agenzia delle Entrate a decidere le sorti del contenzioso, potendo
evitare il processo tramite l’autotutela.
Ma questo non è ancora
l’effetto più gravoso della disposizione.
3.
L’annullamento
dell’atto in autotutela e la riemissione
dell’atto … corretto!
L’esercizio del potere di
autotutela non implica la definitiva consumazione del potere impositivo.
La Suprema Corte di
Cassazione, con sentenza 20 ottobre 2011, n. 21719, ha affermato: “che l’esercizio del potere di autotutela
non implica consumazione del potere impositivo, sicché, rimosso con effetto
“ex tunc” l’atto di accertamento illegittimo od
infondato, la Amministrazione finanziaria conserva ed anzi è tenuta ad
esercitare - nella permanenza dei presupposti di fatto e di diritto - la
potestà impositiva (cfr. Corte Cass. 5^ sez.
20.7.2007 n. 16115, id. 20.6.2007 n. 14377)”.
La stessa sentenza afferma
che “la riforma dell’atto impositivo
non è limitata ai soli vizi formali, ma può estendersi a tutti gli elementi
strutturali dell’atto, costituiti dai destinatari, dall’oggetto e dal
contenuto”.
Ovviamente “il potere di sostituzione dell’atto
impositivo incontra i soli limiti del termine decadenziale
previsto per la notifica degli avvisi di accertamento”.
Con ciò si vuole sottolineare
che, con il reclamo, la tutela del contribuente si può esaurire; ma i
poteri del fisco no.
Si faccia il caso di un
contribuente che si vede recapitare un atto viziato.
Il contribuente dovrà rivolgersi
ad un professionista che dovrà studiare l’atto, la posizione di dottrina e
giurisprudenza e terminare il proprio lavoro redigendo un ricorso/reclamo
che evidenzi i vizi dell’atto indicando le fonti giuridiche che conducono a
tale conclusione.
Però, una volta predisposta
la difesa, vediamo cosa succede presentando un mero “Reclamo”.
Dobbiamo, infatti, ipotizzare
che l’atto sia viziato e non ci sia possibilità di mediazione perché
l’unica richiesta da avanzare è l’annullamento.
Il Reclamo, lo ricordiamo, è
procedura obbligatoria, nei casi stabiliti dalla legge.
L’Ufficio, valutato il
Reclamo, si rende conto di aver commesso degli errori che invalidano
l’atto.
Procede, quindi, ad annullare
l’atto in autotutela e … a riemetterlo corretto, poiché, ipotizziamo, non
sono decaduti i termini della sua azione.
Il contribuente si vedrà
notificare il provvedimento di annullamento dell’atto e poi riceverà,
nuovamente, l’atto impositivo, questa volta corretto per effetto dei
suggerimenti contenuti nel Reclamo 3.
In questo caso il
contribuente è massimamente onerato: ha speso i soldi per difendersi
dall’atto per poi ritrovarselo ... corretto!
Quindi spende di più che
rinunciando all’impugnazione e pagando immediatamente il quantum richiesto
E l’Erario ha ottenuto il
massimo beneficio: i suoi errori vengono evidenziati dal contribuente - a
sue spese - all’Agenzia delle Entrate, che annulla l’atto viziato e
riemette quello corretto, raggiungendo l’obiettivo con il minimo sforzo.
Insomma, il contribuente si
addossa l’onere della correzione di un atto impositivo viziato; diventa
forzatamente parte del procedimento impositivo.
Ma a suo discapito.
4.
Il
rimedio equo: il contraddittorio preventivo
Lo squilibrio causato dalla
disposizione può essere rimediato tramite un nuovo istituto di matrice
giurisprudenziale: il contraddittorio preventivo.
Il contraddittorio preventivo
si inserisce nella fase istruttoria del procedimento accertativo ed ha lo
scopo di consentire al contribuente un tempestivo esercizio del diritto di
difesa.
Questo strumento si inserisce
nella fase antecedente all’emissione dell’atto impositivo e non in quella
successiva, fase nella quale opera il Reclamo 4.
Quindi permette di completare
efficacemente l’istruttoria fiscale con l’apporto delle preziose informazioni
provenienti dal contribuente, senza attendere di interpellarlo dopo che si
è emesso un atto impositivo, magari esecutivo, evitando di generare ansie
nel contribuente e costi inutili.
Il contraddittorio
preventivo, già presente in alcune disposizioni di legge per alcuni casi
specifici 5, è stato inizialmente
delineato, quale istituto applicabile alla generalità dei procedimenti
impositivi, dalla nota sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione
Europea cd. “Sopropè”, causa C-349/07, con la
quale i Giudici hanno affermato che: “I
destinatari di decisioni che incidono sui loro interessi devono essere
messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in
merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la
sua decisione; la regola ha lo scopo di consentire all’Autorità competente
di considerare gli elementi del caso per assicurare un’effettiva difesa del
soggetto coinvolto, al fine di consentirgli di correggere un errore o far
valere elementi relativi alla sua situazione personale e far sì che la
decisione sia adottata o non sia adottata, ovvero che abbia un contenuto
piuttosto che un altro”.
I principi della CGUE sono
stati ribaditi anche dalla Suprema Corte di Cassazione, con la recentissima
sentenza n. 8060/2013 che ha così stabilito 6:
“Orbene, Corte Giust. 18 dicembre 2008, Sopropè, C-349/07 ha riconosciuto il contraddittorio
quale principio fondamentale del diritto dell’Unione europea in “qualsiasi
procedimento”, individuandone lo specifico fondamento non solo negli articoli
47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali - ed. Carta di Nizza
Strasburgo - che garantiscono il rispetto dei diritti della difesa nonché
il diritto ad un processo equo in qualsiasi procedimento giurisdizionale,
ma anche nell’articolo 41 di quest’ultima, il quale garantisce il diritto
ad una buona amministrazione-cfr.p.82 sent. ult. cit.; v. anche Corte Giust.
21 dicembre 2011, C’27/09 P, Repubblica Francese, p. 65”.
Così ha poi concluso:
“10.6 II diritto al contraddittorio si applica a qualsiasi procedimento
che possa sfociare in un atto lesivo (v., in particolare, Corte Giust. 23 ottobre 1974, Transocean
Marine Paint Association/Commissione, causa
C-17/74, punto 15; Krombach, cit., punto 42, e Sopropé, cit., punto 36, sent.MM, cit.,p.85) e garantisce
a chiunque la possibilità di manifestare, utilmente ed efficacemente, il
suo punto di vista durante il procedimento amministrativo prima
dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo
sui suoi interessi (v., in particolare, sentenza del 9 giugno 2005,
Spagna/Commissione, C’287/02, punto 37; Sopropé,
cit., punto 37; Corte giust. 1° ottobre 2009, Foshan Shunde Yongjian Housewares &
Hardware/Consiglio, C’ 141/08 P, punto 83, Corte Giust.
21 dicembre 2011, Francia/Peoplès Mojahedin Organizatìon of
Iran, C"27/09 P punti 64 e 65).
10.7 A siffatto diritto corrisponde il dovere per l’amministrazione
competente di prestare tutta l’attenzione necessaria alle osservazioni
della persona coinvolta esaminando, in modo accurato e imparziale, tutti
gli elementi rilevanti della fattispecie e motivando sufficientemente la
sua decisione (v. sentenze del 21 novembre 1991, Technische
Universitàt Mùnchen, C
-269/90, punto 14, e Sopropé, cit., punto 50),
laddove l’obbligo di motivare una decisione in modo sufficientemente
dettagliato e concreto, al fine di consentire all’interessato di
comprendere le ragioni del diniego opposto alla sua domanda, costituisce un
corollario del principio del rispetto dei diritti della difesa”.
Rispetto alle modalità concrete
di esercizio del contraddittorio la Corte ha aggiunto che "...In forza di tale principio i
destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi
devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di
vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare
la sua decisione”.
La Cassazione a SS.UU., sent. n. 18184/2013, argomentando sul contraddittorio
preventivo, afferma:
“In ambito giurisprudenziale è sufficiente ricordare le seguenti
pronunce:
a) Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 18 dicembre
2008, in causa C-349/07, Sopropé, con la quale,
sia pure in materia di tributi doganali, ma con evidenti riflessi di ordine
generale, è stato valorizzato il principio della partecipazione del
contribuente - il quale “deve essere messo in condizione di far valere le
proprie osservazioni” - a procedimenti in base ai quali l’amministrazione
si proponga di adottare nei suoi confronti un atto di natura lesiva”.
Qualora non bastasse, la
giurisprudenza sta affermando l’applicazione generalizzata dell’art. 12,
comma 7, dello Statuto del Contribuente, sostenendo che vi sarebbe una
violazione dei principi costituzionali qualora questa disposizione fosse
applicabile solo ad accertamenti innescati da accessi, ispezioni e
verifiche. Insomma, si afferma che questa disposizione si applica anche
alle istruttorie condotte in ufficio 7.
5.
Conclusioni
Se questi principi si possono
ritenere ormai acquisiti, si deve concludere che l’iniquo istituto del
reclamo è diventato inutile, perché superato dal più civile istituto del
contraddittorio preventivo.
Grazie a questo nuovo
strumento difensivo, si possono raggiungere risultati equi sia per il
fisco, che acquisisce tutte le informazioni necessarie alla corretta
misurazione della capacità contributiva del soggetto accertato (senza
bisogno di riesaminare l’atto per sopravvenute informazioni) che per il
contribuente, che riesce a tutelarsi prima di essere raggiunto dall’atto
autoritativo, senza subire le ansie dell’impugnazione e dei conseguenti
esborsi.
Insomma, con un minimo sforzo
si può migliorare l’efficienza dell’Amministrazione Finanziaria e il
rapporto fisco-contribuente.
[1] In particolare, la decisione è stata così
motivata: 2.1.– La questione, prospettata in tali termini, è fondata.
Occorre muovere dalla premessa che il processo tributario è in linea
generale ispirato – non diversamente da quello civile o amministrativo – al
principio di responsabilità per le spese del giudizio, come dimostrano
l’art. 15 del decreto legislativo n. 546 del 1992, secondo cui la parte
soccombente è condannata a rimborsare le spese, salvo il potere di
compensazione della commissione tributaria (a norma dell’art. 92, secondo
comma, del codice di procedura civile), e l’art. 44 del medesimo decreto
legislativo, secondo cui, in caso di rinuncia al ricorso, il ricorrente che
rinuncia deve rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo
tra loro.
La compensazione ope legis delle spese nel caso di cessazione della
materia del contendere, rendendo inoperante quel principio, si traduce,
dunque, in un ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un
comportamento (il ritiro dell’atto, nel caso dell’amministrazione, o
l’acquiescenza alla pretesa tributaria, nel caso del contribuente) di
regola determinato dal riconoscimento della fondatezza delle altrui
ragioni, e, corrispondentemente, in un del pari ingiustificato pregiudizio
per la controparte, specie quella privata, obbligata ad avvalersi, nella
nuova disciplina del processo tributario, dell’assistenza tecnica di un
difensore e, quindi, costretta a ricorrere alla mediazione (onerosa) di un
professionista abilitato alla difesa in giudizio.
L’intrinseca
irragionevolezza della norma, in quanto riferita all’ipotesi di ritiro dell’atto
impugnato, che ricorre nel giudizio a quo, emerge del resto con particolare evidenza anche nel
confronto con la disciplina prevista per l’ipotesi di annullamento o
riforma dell’atto, in via di autotutela, nel corso del processo
amministrativo, avente analoga natura impugnatoria.
L’art. 23, settimo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione
dei tribunali amministrativi regionali), dispone infatti, in tal caso, che
«il tribunale amministrativo regionale dà atto della cessata materia del
contendere e provvede sulle spese», anche, ovviamente, dichiarandone la
compensazione qualora ne ricorrano i presupposti.
3.– L’art. 46, comma 3, del decreto legislativo n. 546 del 1992 risulta in
definitiva lesivo, sotto l’aspetto considerato, del principio di
ragionevolezza, riconducibile all’art. 3 della Costituzione, e ne va di
conseguenza dichiarata l’illegittimità costituzionale nella parte in cui si
riferisce alle ipotesi – cui esclusivamente ha riguardo l’ordinanza di
rimessione – di cessazione della materia del contendere diverse dai casi di
definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge, dovendo,
pertanto, in tali ipotesi la commissione tributaria pronunciarsi sulle
spese ai sensi dell’art. 15, comma 1, del decreto legislativo n. 546 del
1992.
2 E questo può avvenire
per i più disparati motivi. Per esempio, l’atto potrebbe anche risultare
viziato ma il ricorrente non individua il vizio invalidante
3 L’Ufficio eviterà di
commettere gli stessi errori commessi nell’atto annullato e appalesati dal
ricorso del contribuente.
4 Come è noto, il
procedimento di accertamento tributario si compone di quattro fasi:
Iniziativa, Istruttoria, Decisione, Esecuzione. Il contraddittorio
preventivo si svolge nella fase istruttoria, antecedente a quella decisionale
nella quale viene emesso il provvedimento impositivo
5 Si tratta delle
seguenti disposizioni: art. 6, comma 5, della L. n. 212/2000; art. 37-bis,
commi 4 e 5, del D.P.R. n. 600/1973; art. 16, commi 6 e 7, D.Lgs. n. 472/1997. La violazione del contraddittorio
delineato da queste disposizioni conduce alla nullità dell’atto.
6 Si perdoni la
pedissequa redazione della sentenza, ma non vi sono migliori parole per
esprimere i principi ivi indicati.
7
Anche la Commissione Tributaria Regionale della Sardegna, con sent. n. 27/1/12 del 18 giugno 2012 , in relazione
all’interpretazione dell’art. 12, comma 7, dello Statuto del Contribuente,
si è espressa in questo senso, così decidendo:
“Orbene, a giudizio di questa Commissione, l’interpretazione letterale
- ma anche sistematica - della disposizione non può che comportarne la sua
applicazione a tutte le verifiche fiscali, nessuna esclusa, ivi comprese
perciò anche quelle che vengano svolte presso gli uffici degli organi di
controllo, in seguito al reperimento di documentazione richiesta al
contribuente, tanto più che la medesima disposizione appare strettamente
correlata al rispetto del principio di leale collaborazione tra
Amministrazione e contribuente che, certamente, non potrebbe venir meno a
seconda del luogo in cui si svolga la verifica. Né la norma compie
distinzioni al riguardo, limitando la sua applicabilità ai soli casi di
accessi ispezioni e verifiche eseguite ai sensi dell’art. 52 del D.P.R. n.
633172 e dell’art. 33 del D.P.R. n. 600/73 e non anche ai sensi
rispettivamente dell’art. 51 e. 32 dei citati decreti”.
Nel medesimo senso si è allineata la Commissione Tributaria Regionale della
Lombardia con sent. n. 4/12/12 del 27 gennaio
2012 affermando esplicitamente che “In base a tali principi, qualunque
attività di natura istruttoria diretta alla verifica della dichiarazione
tributaria o tale da comportare l’esame in ufficio dei documenti prodotti
dal contribuente stesso, su invito dell’Amministrazione Finanziaria è
qualificabile come attività di verifica.
In sostanza, ai fini dell’osservanza del principio del contraddittorio, il
contribuente deve essere posto in condizione di conoscere le rilevazioni
eseguite e le constatazioni effettuate, per consentire al contribuente
stesso di potersi difendere, presentando le opportune osservazioni.
La mancata osservanza della norma per la chiusura della verifica invalida,
pertanto, la procedura di verifica rendendo, di conseguenza, illegittimo
l’avviso di accertamento”.
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