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Dalla rivista  “Il Fisco” n. 30/2003

 

 

 

Studi  di  settore:  congruità  negata  a  chi  contava  sulla  franchigia dell’integrativa semplice?

 

Di Alberto Buscema

Dottore Commercialista in Padova

 

Premessa

Le istruzioni emanate dall’Agenzia delle Entrate negli ultimi mesi, in tema di condono, non sono bastate a fornire sufficienti delucidazioni.

Lo si evince dalla recente circolare, n. 39/E del 17 luglio 2003, che coglie l’occasione  della riapertura dei termini per fornire nuove indicazioni sul tema del rapporto tra gli effetti delle sanatorie di cui alla legge n. 289 del 27.12.2002 e le disposizioni accertative riguardanti gli studi di settore.

L’interpretazione appare sorprendente  sia per i tempi di emanazione dell’indicazione sia per ciò che vi si sostiene.

Vediamo di analizzarne i contenuti e di percorrerne l’iter giuridico, verificandone anche la correttezza dal punto di vista logico.

Il contenuto della Circolare

Il documento in commento, che fornisce una panoramica sugli studi di settore, si sofferma ad analizzare gli effetti dell’integrativa semplice sui contribuenti assoggettati al controllo del recente strumento accertativo.

Testualmente stabilisce che “ai fini della verifica della condizione della non congruità dei due periodi d’imposta su tre consecutivi, l’integrazione dell’imponibile rileva a condizione che il contribuente risulti avere integrato i ricavi o i compensi in misura non inferiore a quelli determinabili sulla base dell’applicazione degli studi di settore”. Precisando “assume rilevanza la sola integrazione dei ricavi o compensi al valore puntuale risultante dall’applicazione degli studi di settore”.

Non viene fornita alcuna motivazione di questa presa di posizione: risulta pertanto necessaria una verifica del testo normativo e l’utilizzo dei normali canoni intepretativi al fine di valutarne la fondatezza.

L’introduzione degli studi di settore

L’articolo 62 bis del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, ha introdotto nel nostro ordinamento tributario l’istituto dello studio di settore. Questo particolare strumento è stato studiato al fine di controllare la veridicità, attraverso una analisi della congruità, dei compensi e dei ricavi dichiarati dagli esercenti arti e professioni e dagli imprenditori.

I risultati forniti da questa nuova forma di controllo vengono annunciati quali affidabili, poiché basati su sofisticate elaborazioni matematico-statistiche capaci di controllare la relazione tra i dati relativi allo svolgimento dell’attività economica del contribuente e i suoi ricavi o compensi.   

Lo studio di settore arricchisce, così, il panorama degli   strumenti accertativi.

In particolare può essere utilizzato nei confronti di esercenti attività d’impresa in regime di contabilità ordinaria per effetto di opzione e degli esercenti arti e professioni, qualunque sia il loro regime contabile, solo se in almeno due periodi d’imposta su tre consecutivi considerati l’ammontare dei compensi e dei ricavi determinabili sulla base degli studi di settore risulta superiore all’ammontare dei compensi o ricavi dichiarati con riferimento agli stessi periodi d’imposta.

Per gli imprenditori in contabilità semplificata l’accertamento avviene in relazione ad ogni periodo d’imposta non congruo.

L’integrativa semplice

Tra i recenti istituti introdotti dalle norme sul condono,  innestate dalla legge 27.12.2002, n. 289, vi è quello dell’integrativa semplice, prevista dall’articolo 8.

La norma prevede una particolare modalità di integrazione degli imponibili che lascia ampia discrezionalità al contribuente nel decidere il quantum da integrare.

Nell’ambito di questo istituto il legislatore ha  introdotto un meccanismo particolare, denominato “franchigia”, che consente di non subire ulteriori accertamenti fino a concorrenza del doppio dell’imponibile integrato.

Non è un “escamotage”: è la scelta precisa del legislatore.

Combinando la norma sugli studi di settore e quella sull’integrativa semplice ne derivava la logica conclusione che, in presenza di scostamenti, rispetto a quelli quantificati dagli studi di settore, era sufficiente integrare la base imponibile della metà della differenza, sfruttando gli effetti della franchigia, per vedere sanata ogni eventuale contestazione e riportare alla congruità il soggetto.

Il significato della congruità

Abbiamo visto che lo studio di settore è uno strumento accertativo basato su presunzioni e intriso di formule matematico-statistiche studiate per consentire, con buona approssimazione, la ricostruzione del volume di ricavi o compensi dell’imprenditore o del professionista.

Nell’ambito di questo particolare metodo riscostruttivo una funzione fondamentale è espressa dalla congruità, intesa quale quantum di ricavi o compensi considerato corretto o attendibile.

La incongruità segnala, di conseguenza, una probabile evasione del contribuente attuata per mezzo della omissione di ricavi o compensi.

E’ evidente che la sottrazione di materiale imponibile comporta una compressione non solo del volume d’affari, da assoggettare all’iva, ma anche del reddito dichiarato.

Lo strano  assioma: non congrui ma non accertabili

Chiarita la funzione della congruità e analizzati gli istituti dello studio di settore e dell’integrativa semplice si può ora procedere a commentare la circolare dell’Agenzia delle Entrate.

Il documento dell’amministrazione finanziaria, senza fornire alcuna spiegazione sulle motivazioni che renderebbero preferibile la soluzione indicata, ritiene che solo integrando la base imponibile fino al raggiungimento del ricavo puntuale si può ottenere la congruità e quindi l’esclusione del periodo d’imposta integrato dal calcolo dei tre previsti quali periodi d’imposta “sorvegliati”.

Poiché non viene esposto alcun ragionamento che riveli le ragioni che hanno spinto l’Agenzia a queste conclusioni si può ritenere che questa interpretazione abbia fatto leva sulla letteralità dell’articolo 10, comma 2, della legge 8 maggio 1998, n. 146,  il quale, disponendo della modalità di utilizzazione degli studi di settore in sede di accertamento, prevede che la non congruità si abbia quando l’ammontare dei compensi e dei ricavi determinabili sulla base degli studi di settore  risulti superiore all’ammontare dei “compensi o ricavi dichiarati” con riferimento agli stessi periodi d’imposta.

La tesi dovrebbe essere questa: siccome i compensi o ricavi dichiarati con l’integrativa semplice, indicati in misura dimezzata per effetto della franchigia, sono inferiori a quelli determinati con l’utilizzo dello studio di settore il contribuente risulterebbe incongruo.

Solo integrando l’imponibile pienamente, inteso quale ricavo o compenso puntuale, si avrebbe la perfetta aderenza alla lettera della norma.

Se questa fosse la reale volontà della legge l’amministrazione finanziaria avrebbe la possibilità di non considerare congrui  coloro che hanno utilizzato questa forma di integrazione.

La conseguenza sarebbe la preclusione all’accertamento relativamente al periodo d’imposta condonato, anche se ritenuto non congruo, a causa della franchigia, e l’incremento dei periodi d’imposta non congrui.

Con il risultato di aumentare le probabilità di rettifica di quelli  non coperti da condono.

Riportiamo un esempio per comprenderne il funzionamento.

Un contribuente risulta essere non congruo per il periodo d’imposta 2001 e procede all’integrazione semplice sfruttando l’effetto della franchigia al fine di allinearsi agli studi di settore. Se nel 2002 risulta non congruo, potrà essere accertato per il meccanismo dei due periodi d’imposta su tre consecutivi. Relativamente al 2001 il suo imponibile non potrà essere rettificato per effetto della franchigia, mentre per il 2002 sarà emesso l’avviso di accertamento.

Tale ragionamento fa leva sulla sola letteralità dell’articolo 10, legge n. 146/98.

La ricostruzione della ratio degli studi di settore, esaminata nelle righe che precedono,  conduce a conclusioni diverse.

Si ribadisce che la norma sugli studi di settore dovrebbe avere il compito di fornire uno strumento accertativo sofisticato all’amministrazione finanziaria per permetterle di ricostruire in modo prossimo alla realtà i ricavi o compensi del contribuente.

Se questo è lo scopo non si comprende per quale motivo l’utilizzo delle disposizioni sull’integrativa semplice dovrebbero garantire la preclusione all’accertamento ad un contribuente che ha evaso e procede ad una integrativa pari alla metà dell’imponibile, poiché protetto dalla franchigia,  ma non consentire la congruità, cioè la correttezza della misura della base imponibile denunciata, a chi è assoggettato allo studio di settore.

Altre considerazioni, che avvalorano questa ricostruzione, si possono esprimere.

Innanzitutto: la legge sugli studi di settore che stabilisce la congruità è stata emanata nel 1998, quando non esistevano le disposizioni che permettono la dichiarazione integrativa di condono.

In quel periodo non era in vigore alcuna disposizione simile a quella dell’articolo 8 legge n. 289/2002, cioè uno strumento che consentisse di integrare l’imponibile per metà, ad opera della franchigia.

Se vi fosse stato si sarebbe potuto ritenere che le disposizioni dello studio di settore avessero preso in considerazione, volutamente ed esplicitamente, solo i ricavi o compensi dichiarati, escludendo così la congruità per quelli “da franchigia”.

Invece nella mente del legislatore che ha introdotto lo studio di settore non c’era differenza alcuna tra congruità e ammontare di imposta accertabile.

Perché l’uno è lo strumento per quantificare l’altro.

Non esistendo nel panorama tributario alcun meccanismo di franchigia era logico che il testo della legge n. 146/1998 disponesse  che la non congruità risultasse quale differenza rispetto ai “compensi o ricavi dichiarati”.

Secondariamente: la congruità stabilisce che un contribuente ha dichiarato l’ammontare di ricavi o compensi giudicati idonei a riassumere la sua capacità contributiva.

Concettualmente e in virtù della logica degli studi di settore, non esiste differenza di capacità contributiva tra un contribuente, assoggettabile agli studi di settore, che consegue ricavi per 100 e risulta congruo proprio al “ricavo puntuale” ed un altro, assoggettato anch’esso agli studi, chiamato a dichiarare lo stesso volume di ricavi per effetto dell’adeguamento ai risultati di Gerico.

La logica del condono, o meglio dell’integrativa semplice, per espressa previsione del legislatore è quella di considerare chiusa la vertenza sul quantum anche solo dichiarando la metà, per effetto della franchigia.

Perché lo studio di settore è uno strumento accertativo e, fino al limite della franchigia, è precluso “ogni” accertamento tributario.

Inclusa l’indagine sulla congruità, mezzo per segnalare la probabile evasione ed il conseguente accertamento.

Oltretutto si romperebbe così l’equilibrio voluto dal legislatore: due periodi incongrui= due periodi accertabili.

L’illogicità è ancora più manifesta se si paragona la posizione di un imprenditore in contabilità ordinaria per opzione con uno esercente analoga attività ma assoggettato al regime della contabilità semplificata.

Si sa che coloro i quali svolgono attività di impresa in regime di contabilità semplificata godono di uno sfavore, ai fini degli studi di settore, rispetto a coloro che hanno optato per la contabilità ordinaria: sono accertabili per ogni singolo periodo d’imposta, qualora si discostino dai risultati di Gerico.

Per mezzo dell’interpretazione fornita dalla Circolare n. 39/E i contribuenti in contabilità ordinaria per opzione si troverebbero equiparati a quelli in contabilità semplificata:  entrambi avendo aderito al condono relativo al periodo d’imposta 2001 si potrebbero trovare a non essere congrui per il periodo d’imposta 2002 ed entrambi accertabili.

Il meccanismo dello studio di settore, che prevede trattamenti diversi per imprenditori in semplificata e imprenditori in ordinaria per opzione, si snaturerebbe per trattare tutti allo stesso modo.

E’ evidente la distorsione nell’applicazione dello strumento, così come pensato dal legislatore.

Conclusioni

Lo studio di settore è essenzialmente uno strumento pensato per controllare la fedeltà delle dichiarazioni tributarie.

E’ a tutti gli effetti uno strumento di accertamento basato su presunzioni.

L’interpretazione fornita dall’Agenzia delle Entrate risulta forzata e vorrebbe introdurre un concetto di incongruità privo di logica perché sganciato da un maggiore ricavo accertabile.

Il che è contrario alla logica degli studi di settore che vuole non vi possa essere incongruità se non vi sono maggiori ricavi accertabili.   

 

 

 

 

 

 

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